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sabato 24 dicembre 2011

Il Sacro Cuore e la leggenda del Sacro Graal



Nel suo articolo “Iconographie ancienne du Coeur de Jésus”, Charbonneau‑Lassay segnala molto giustamente, in collegamen­to con quella che si potrebbe chiamare la «preistoria del Cuore eucaristico di Gesù», la leggenda del Santo Graal, scritta nel se­colo XII, ma assai anteriore per le sue origini, poiché essa è in realtà un adattamento cristiano di antichissime tradizioni celti­che. L'idea di questo accostamento ci era già venuta in occasione dell'articolo precedente, estremamente interessante dal punto di vista in cui ci poniamo, intitolato “Le Coeur humain et la notion du Coeur de Dieu dans la religion de l'ancienne Égypte”, di cui richiameremo il brano seguente: «Nei geroglifici, scrit­tura sacra ove spesso l'immagine della cosa rappresenta la parola stessa che la designa, il cuore fu nondimeno raffigurato con un solo emblema: il vaso. Il cuore dell'uomo non è infatti il vaso in cui la sua vita si elabora continuamente con il suo sangue?». Appunto il vaso, preso come simbolo del cuore e che si so­stituisce a esso nell'ideografia egiziana, ci aveva fatto pensare immediatamente al Santo Graal, tanto più che in quest'ultimo, oltre al senso generale del simbolo (considerato d'altronde nello stesso tempo sotto i suoi due aspetti divino e umano), vediamo ancora una relazione speciale e assai più diretta con il Cuore medesimo di Cristo.

Effettivamente, il Santo Graal è la coppa che contiene il pre­zioso sangue di Cristo, e lo contiene addirittura due volte, poiché essa servì dapprima alla Cena, e in seguito Giuseppe d'Arimatea vi raccolse il sangue e l'acqua che sgorgavano dalla ferita aperta dalla lancia del centurione nel fianco del Redentore. Questa cop­pa si sostituisce dunque in qualche modo al Cuore di Cristo come ricettacolo del suo sangue, ne prende per così dire il posto e ne diviene come un equivalente simbolico; e non è ancor più notevole, in queste condizioni, che il vaso sia già stato antica­mente un emblema del cuore? D'altronde, la coppa, sotto una forma o sotto un'altra, svolge, al pari del cuore stesso, un ruolo assai importante in molte tradizioni antiche; e senza dubbio era così in particolare presso i Celti, giacché da essi è venuto ciò che costituì il fondo stesso o almeno la trama della leggenda del Santo Graal. È increscioso che non si possa sapere con molta pre­cisione qual era la forma di questa tradizione anteriormente al cristianesimo, come succede del resto per tutto ciò che concerne le dottrine celtiche, per le quali l'insegnamento orale fu sempre l'unico modo di trasmissione usato; ma vi è d'altra parte una sufficiente concordanza perché si possa almeno essere informati sul senso dei principali simboli che vi figuravano, e questo è in fondo quel che c'è di più essenziale.

Ma torniamo alla leggenda sotto la forma in cui ci è perve­nuta; quel che dice dell'origine stessa del Graal è assai degno di attenzione: questa coppa sarebbe stata intagliata dagli angeli in uno smeraldo staccatosi dalla fronte di Lucifero al momento del­la sua caduta. Tale smeraldo richiama in modo sorprendente l’“urna”, la perla frontale che, nell'iconografia indù, occupa spesso il posto del terzo occhio di Shiva, rappresentando quel che si può chiamare il «senso dell'eternità». Questo accostamento ci sembra più adatto di qualsiasi altro a illuminare perfettamente il simbo­lismo del Graal; e si può persino cogliervi una relazione di più con il cuore, che è, per la tradizione indù come per molte altre, ma forse più chiaramente ancora, il centro dell'essere integrale, e al quale, di conseguenza, tale «senso dell'eternità» dev'essere direttamente ricollegato.

È detto poi che il Graal fu affidato ad Adamo nel Paradiso terrestre, ma che, alla sua caduta, Adamo lo perse a sua volta, dal momento che non poté portarlo con sé quando fu cacciato dall'Eden; e anche questo diventa assai chiaro con il senso che abbiamo appena indicato. L'uomo, allontanato dal suo centro originale dalla propria colpa, si trovava ormai rinchiuso nella sfera temporale; non poteva più raggiungere il punto unico da cui tutte le cose sono contemplate sotto l'aspetto dell'eternità. Il Paradiso terrestre, infatti, era veramente il «Centro del Mondo», dovunque assimilato simbolicamente al Cuore divino; e non si può dire che Adamo, finché fu nell'Eden, viveva realmente nel Cuore di Dio?

Quanto segue è più enigmatico: Seth ottenne di rientrare nel Paradiso terrestre e poté così recuperare il prezioso vaso; ora, Seth è una delle figure del Redentore, tanto più che il suo stesso nome esprime le idee di fondamento, di stabilità, e annuncia in qualche modo la restaurazione dell'ordine primordiale distrutto dalla caduta dell'uomo. C'era dunque fin da allora almeno una restaurazione parziale, nel senso che Seth e quelli che dopo di lui possedettero il Graal potevano per ciò stesso istituire, da qualche parte sulla terra, un centro spirituale che era come un'immagine del Paradiso perduto. La leggenda, d'altronde, non dice dove né da chi il Graal fu conservato fino all'epoca di Cristo, né come fu assicurata la sua trasmissione, ma l'origine celtica che le si riconosce deve probabilmente lasciar intendere che i druidi vi ebbero parte e devono essere annoverati fra i conser­vatori regolari della tradizione primordiale. In ogni caso, non sembra che si possa mettere in dubbio l'esistenza di un tale centro spirituale, o anche di parecchi, simultaneamente o successivamente, qualunque cosa si debba pensare della loro localizzazione; quel ch'è da notare è che si applicò sempre e dappertutto a questi centri, tra le altre designazioni, quella di «Cuore del Mondo», e che, in tutte le tradizioni, le descrizioni che a essi si riferiscono sono basate su un identico simbolismo, che è possibile seguire fin nei particolari più precisi. Questo non mostra forse a sufficienza che il Graal, o ciò che viene così rappresentato, aveva già, ante­riormente al cristianesimo, anzi in ogni tempo, un legame fra i più stretti con il Cuore divino e con l'“Emmanuel”, vogliamo dire con la manifestazione, virtuale o reale a seconda delle epoche, ma sempre presente, del Verbo eterno nel seno dell'umanità ter­restre?

Dopo la morte di Cristo, il Santo Graal fu, secondo la leggenda, trasportato in Gran Bretagna da Giuseppe d'Arimatea e da Nicodemo; comincia allora a svolgersi la storia dei Cavalieri della Tavola rotonda e delle loro imprese, che non intendiamo seguire qui. La Tavola rotonda era destinata a ricevere il Graal quando uno dei cavalieri fosse riuscito a conquistarlo e l'avesse portato dalla Gran Bretagna in Armorica; e questa tavola è anch'essa un simbolo verosimilmente antichissimo, uno di quelli che fu­rono associati all'idea dei centri spirituali a cui abbiamo appena alluso. La forma circolare della tavola è d'altronde legata al «ciclo zodiacale» (ancora un simbolo che meriterebbe di essere studiato più specificamente) per la presenza attorno a essa di dodici personaggi principali, particolarità che si ritrova nella costituzione di tutti i centri in questione. Stando così le cose, non si può forse vedere nel numero dei dodici Apostoli una traccia, fra moltissime altre, della perfetta conformità del cri­stianesimo alla tradizione primordiale, alla quale il nome di “precristianesimo» converrebbe tanto esattamente? E, d'altra par­te, a proposito della Tavola rotonda, abbiamo osservato una stra­na concordanza nelle rivelazioni simboliche fatte a Marie de Vallées [Si veda «Regnabit», novembre 1924], ove è menzionata «una tavola rotonda di diaspro, che rappresenta il Cuore di Nostro Signore», nello stesso tempo in cui si tratta di «un giardino che è il Santo Sacramento dell'al­tare», e che, con le sue «quattro fontane d'acqua viva», si iden­tifica misteriosamente al Paradiso terrestre; non è ancora una conferma abbastanza sorprendente e inattesa dei rapporti che segnalavamo sopra?

Naturalmente, queste note troppo rapide non potrebbero avere la pretesa di costituire uno studio completo su una questione così poco conosciuta; dobbiamo limitarci per il momento a fornire delle semplici indicazioni, e ci rendiamo ben conto che vi si trovano delle considerazioni suscettibili, sulle prime, di sor­prendere un poco coloro che non sono familiarizzati con le tra­dizioni antiche e con i loro consueti modi d'espressione simbo­lica; ma ci riserviamo di svilupparli e giustificarli più ampia­mente in seguito, in articoli in cui pensiamo di poter affrontare anche molti altri punti non meno degni d'interesse.

Intanto menzioneremo ancora, per quel che concerne la leg­genda del Santo Graal, una strana complicazione di cui non abbiamo tenuto conto fin qui: per una di quelle assimilazioni verbali che svolgono spesso nel simbolismo un ruolo non trascu­rabile, e che d'altronde hanno forse ragioni più profonde di quanto ci s'immaginerebbe a prima vista, il Graal è a un tempo un vaso (grasale) e un libro (gradale o graduale). In alcune ver­sioni, i due sensi si trovano anche strettamente collegati, poiché il libro diviene allora un'iscrizione tracciata da Cristo o da un angelo sulla coppa stessa. Non intendiamo attualmente trarre da ciò alcuna conclusione, benché vi siano dei collegamenti facili a stabilirsi con il «Libro della Vita» e con certi elementi del simbolismo apocalittico.

Aggiungiamo che la leggenda associa al Graal altri oggetti, e in particolare una lancia, che, nell'adattamento cristiano, non è altro che la lancia del centurione Longino; ma quel che è assai curioso è la preesistenza di questa lancia o di qualche suo equi­valente come simbolo in qualche modo complementare alla coppa nelle tradizioni antiche. D'altra parte, presso i Greci, si riteneva che la lancia d'Achille guarisse le ferite che causava; la leggenda medioevale attribuisce precisamente la stessa virtù alla lancia della Passione. E questo ci richiama un'altra somiglianza dello stesso genere: nel mito di Adone (il cui nome, del resto, signifi­ca «il Signore»), allorché l'eroe viene colpito mortalmente dal grifo di un cinghiale (che sostituisce qui la lancia), il suo sangue, spandendosi a terra, fa nascere un fiore; ora, Charbon­neau in «Regnabit» [Si veda “Regnabit», gennaio 1925] ha segnalato «un ferro da ostie, del secolo XII, dove si vede il sangue delle piaghe del Crocifisso cadere in goccioline che si trasformano in rose, e la vetrata del secolo XIII della cattedrale d'Angers in cui il sangue divino, che cola in ru­scelli, sboccia pure sotto forma di rose». Avremo fra poco da riparlare del simbolismo floreale, considerato sotto un profilo un poco differente; ma, quale che sia la molteplicità di sensi che presentano quasi tutti i simboli, tutto ciò si completa e si armonizza perfettamente, e questa stessa molteplicità, lungi dall'essere un inconveniente o un difetto, è, al contrario, per chi sa comprenderla, uno dei vantaggi principali di un linguaggio assai meno strettamente limitato del linguaggio ordinario.

Per concludere queste note, indicheremo alcuni simboli che, in varie tradizioni, si sostituiscono talora a quello della coppa, e gli sono identici nel fondo; ciò non significa uscire dal nostro terna, dal momento che il Graal stesso, come si può facilmente rendersi conto da tutto quanto abbiamo detto, non ha all'origine altro significato se non quello che ha il vaso sacro dovunque lo si incontri, e che ha in particolare, in Oriente, la coppa sacrificale contenente il Soma vedico (o lo Haoma mazdeo), straordinaria «prefigurazione» eucaristica sulla quale torneremo forse in altra occasione. Ciò che il Soma raffigura propriamente, è la «bevanda d'immortalità» (l'Amrita degli Indù, l'Ambrosia dei Greci, due parole etimologicamente simili), che conferisce o restituisce, a coloro che la accolgono con le disposizioni richieste, quel «senso dell'eternità» di cui s'è trattato precedentemente.

Uno dei simboli di cui vogliamo parlare è il triangolo con la punta diretta verso il basso; è una specie di rappresentazione schematica della coppa sacrificale, e lo si trova a questo titolo in certi yantra o simboli geometrici dell'India. D'altra parte, è assai degno di nota dal nostro punto di vista il fatto che la medesima figura sia anche un simbolo del cuore, di cui riproduce d'altronde la forma semplificandola; il «triangolo del cuore» è un'espres­sione corrente nelle tradizioni orientali. Questo ci porta a un'os­servazione che ha anch'essa il suo interesse: e cioè che la raffigu­razione del cuore inscritto in un triangolo così disposto non ha in sé nulla che non sia assolutamente legittimo, si tratti del cuore umano o del Cuore divino, e che essa è pure abbastanza significa­tiva quando la si riferisce agli emblemi usati da certo ermetismo cristiano del Medioevo, le cui intenzioni furono sempre piena­mente ortodosse. Se si è voluto talvolta, nei tempi moderni, at­tribuire a una tale rappresentazione un senso blasfemo, ciò si deve al fatto che è stato alterato, coscientemente o no, il signifi­cato originario dei simboli, fino a capovolgere il loro valore nor­male; è un fenomeno questo di cui si potrebbero citare numerosi esempi, e che trova d'altronde la sua spiegazione nel fatto che certi simboli sono effettivamente suscettibili di una doppia inter­pretazione e hanno quasi due facce opposte. Il serpente, per esem­pio, e anche il leone, non significano ugualmente, secondo i casi, il Cristo e Satana? Non possiamo pensare di esporre qui a questo proposito una teoria generale che ci condurrebbe assai lontano; ma si comprenderà che vi è in ciò qualcosa che rende molto deli­cato l'uso dei simboli, e anche che questo punto richiede un'attenzione tutta speciale allorché si tratta di scoprire il senso reale di certi emblemi e di tradurli correttamente.

Un altro simbolo che equivale frequentemente a quello della coppa, è un simbolo floreale: il fiore, infatti, non evoca forse con la sua forma l'idea di un «ricettacolo», e non si parla del «calice» di un fiore? In Oriente, il fiore simbolico per eccellenza è il loto; in Occidente, è più spesso la rosa a svolgere l'identico ruolo. Non vogliamo dire, beninteso, che tale sia l'unico signifi­cato di quest'ultima, come pure del loto, dato che, al contrario, ne indicavamo noi stessi un altro in precedenza; ma lo vedremmo volentieri nel disegno ricamato su quella cartagloria dell'abbazia di Fontevrault dove la rosa è collocata ai piedi d'una lancia lungo la quale piovono gocce di sangue. Questa rosa vi appare asso­ciata alla lancia esattamente come lo è altrove la coppa, e sem­bra proprio raccogliere le gocce di sangue piuttosto che prove­nire dalla trasformazione di una di esse; ma, del resto, i due significati si completano molto più di quanto non si oppongano, dal momento che le gocce, cadendo sulla rosa, la vivificano e la fanno sbocciare. È la «rugiada celeste», secondo la figura così spesso impiegata in relazione all'idea della Redenzione, o alle idee connesse di rigenerazione e di resurrezione; ma pure questo richiederebbe lunghe spiegazioni, quand'anche ci limitassimo a mettere in rilievo la concordanza delle diverse tradizioni riguardo a quest'altro simbolo.

D'altra parte, poiché è stato fatto riferimento alla Rosa‑Croce a proposito del sigillo di Lutero, diremo che quest'emblema er­metico fu dapprima specificamente cristiano, quali che siano le false interpretazioni più o meno «naturalistiche» che ne sono state date a partire dal secolo XVIII; e non è forse degno di nota che la rosa vi occupi, al centro della croce, proprio il posto del Sacro Cuore? Al di fuori delle rappresentazioni in cui le cinque piaghe del Crocifisso sono raffigurate da altrettante rose, la rosa centrale, quand'è sola, può benissimo identificarsi con il Cuore stesso, con il vaso che contiene il sangue, che è il centro della vita e anche il centro dell'essere intero.

C'è ancora almeno un altro equivalente simbolico della coppa: è la falce lunare; ma questa, per essere convenientemente spie­gata, esigerebbe degli sviluppi del tutto estranei al tema del pre­sente studio; la menzioneremo soltanto per non trascurare total­mente nessun lato della questione.
Da tutti i collegamenti che abbiamo appena segnalato, trarremo già una conseguenza che speriamo di poter rendere ancora più manifesta in seguito: quando si trovano dappertutto concordanze tali, non vi è forse più che un semplice indizio dell'esistenza di una tradizione primordiale? E come spiegare che, la maggior parte delle volte, coloro stessi che si credono obbligati ad am­mettere in teoria questa tradizione primordiale non vi pensano più in seguito e ragionano di fatto esattamente come se essa non fosse mai esistita, o almeno come se nulla se ne fosse conservato nel corso dei secoli? Se si vuol riflettere bene a quel che c'è di anormale in un simile atteggiamento, si sarà forse meno disposti a meravigliarsi di certe considerazioni che, in verità, sembrano strane solo in virtù delle abitudini mentali proprie alla nostra epoca. D'altronde, basta cercare un po’, a condizione di non avere in ciò alcun partito preso, per scoprire da ogni parte le tracce di questa unità dottrinale essenziale, la cui coscienza ha potuto talora oscurarsi nell'umanità, ma che non è mai scomparsa inte­ramente; e, mano a mano che si procede in questa ricerca, i punti di confronto si moltiplicano quasi da soli e nuove prove appaiono a ogni istante; certo, il “Quaerite et invenietis” del Van­gelo non è parola vana.

Guenon, Simboli della scienza sacra

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