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domenica 25 dicembre 2011

A se stesso

Non agire mai contro la tua volontà, nè egoisticamente, nè senza un attento esame, nè trascinatovi da motivi opposti; non cercare di abbellire il tuo pensiero con affettazione. Non essere loquace nè troppo indaffarato. Fa' che il dio che dimora in te sia la guida di un vero uomo, maturo e rispettabile, di un cittadino, di un Romano... fermo al suo posto, pronto a lasciare la vita come chi non aspetta che il segnale della ritirata, senza giuramento nè testimoni, sereno nell'intimo e tale da non aver bisogno nè d'aiuto esterno nè della tranquillità che possono procurare gli altri.
Si deve stare ritti, non essere sorretti!

Marco Aurelio

sabato 24 dicembre 2011

I custodi della Terra Santa




Uno degli attributi più noti, ma in genere non dei meglio compresi, degli ordini cavallereschi, e più particolarmente dei Templari, è quello di «custodi della Terra santa». Se ci si attiene al significato più esteriore, questo attributo trova una giustifi­cazione immediata nella relazione esistente fra l'origine di tali Ordini e le Crociate, giacché, per i Cristiani come per gli Ebrei, sembra proprio che «Terra santa» non designi nient'altro che la Palestina. Tuttavia, il problema diventa più complesso quando ci si accorge che varie organizzazioni orientali, il cui carattere iniziatico è fuor di dubbio, come gli Assassini e i Drusi, si sono ugualmente fregiati del titolo di «custodi della Terra santa». In questo caso non può più trattarsi della Palestina; ed è notevole d'altronde che queste organizzazioni presentino un numero ab­bastanza grande di tratti comuni con gli ordini cavallereschi occidentali, e che addirittura alcune di esse siano state storica­mente in relazione con questi ultimi. Che cosa dunque bisogna intendere in realtà per «Terra santa», e a cosa corrisponde esat­tamente questo ruolo di «custodi» che sembra legato a un de­terminato genere d'iniziazione, che si può chiamare iniziazione “cavalleresca», dando a questo termine un'estensione maggiore di quanto non si faccia di solito, ma che le analogie esistenti fra le sue diverse forme basterebbero ampiamente a legittimare?

Abbiamo già mostrato altrove, e in particolare nel nostro stu­dio sul “Roi du Monde”, che l'espressione «Terra santa» ha un certo numero di sinonimi: «Terra pura», «Terra dei Santi», «Terra dei Beati», «Terra dei Viventi», «Terra d'Immortalità», che queste designazioni equivalenti s'incontrano nelle tradizioni di tutti i popoli, e che esse si applicano essenzialmente sempre a un centro spirituale la cui localizzazione in una regione de­terminata può d'altronde, secondo i casi, venir intesa letteral­mente o simbolicamente, o in entrambi i sensi. Ogni «Terra santa» è designata ancora con espressioni come «Centro del Mon­do» o «Cuore del Mondo», e ciò richiede qualche spiegazione, perché queste designazioni uniformi, benché di diversa applica­zione, potrebbero facilmente generare confusioni.

Se consideriamo per esempio la tradizione ebraica, vediamo che si parla, nel Sepher Ietsirah, del «Palazzo santo» o «Palazzo interiore», che è il vero «Centro del Mondo», nel senso cosmo­gonico di questo termine; e vediamo anche che tale «Palazzo santo» ha la sua immagine nel mondo umano nella residenza in un certo luogo della Shekinah, che è la «presenza reale» della Divinità [Si vedano i nostri articoli su “Le Cocur du Monde dans la Kabbale hébraique” e “La Terre sainte et le Coeur du Monde”, nella rivista «Regnabit», luglio‑agosto e settembre‑ottobre 1926]. Per il popolo d'Israele, la residenza della Shekinah era il Tabernacolo (Mishkan), che, per tale ragione, era considerato il «Cuore del Mondo», perché era effettivamente il centro spi­rituale della sua tradizione. Questo centro, d'altronde, all'inizio non fu assolutamente un luogo fisso; quando si tratta di un po­polo nomade, come in questo caso, il suo centro spirituale deve spostarsi con esso, rimanendo tuttavia lo stesso nel corso dello spostamento. «La residenza della Shekinah» dice Vulliaud «di­venne fissa soltanto il giorno in cui fu costruito il tempio, per il quale Davide aveva preparato l'oro, l'argento, e tutto quel ch'era necessario a Salomone per compiere l'opera [È opportuno notare che le espressioni qui usate evocano l'assimilazione frequentemente stabilita fra la costruzione del Tempio, considerata nel suo significato ideale, e la «Grande Opera» degli ermetisti]. Il Taber­nacolo della Santità di Jehovah, la residenza della Shekinah, è il Santo dei Santi che è il cuore del Tempio, che è a sua volta il centro di Sion (Gerusalemme), come la santa Sion è il centro della Terra d'Israele, come la Terra d'Israele è il centro del mondo» [La Kabbale Juive, I, p. 509]. Si può notare che vi è qui una progressiva estensione dell'idea del centro nelle successive applicazioni che ne sono fatte, di modo che la denominazione di «Centro del Mondo» o di «Cuore del Mondo» è infine estesa all'intera Terra d'Israele, in quanto essa è considerata la «Terra santa»; e occorre aggiun­gere che, sotto lo stesso profilo, essa riceve pure, fra le altre denominazioni, quella di «Terra dei Viventi». Si parla della «Terra dei Viventi che comprende sette terre», e Vulliaud os­serva che «questa Terra è Canaan in cui vivevano sette popoli» [La Kabbale, II, p. 116], il che è letteralmente esatto, per quanto sia ugualmente possi­bile un'interpretazione simbolica. L'espressione «Terra dei Vi­venti» è un esatto sinonimo di «dimora d'immortalità», e la li­turgia cattolica la applica alla dimora celeste degli eletti, che era infatti raffigurata dalla Terra promessa, giacché Israele, pe­netrandovi, doveva veder la fine delle sue tribolazioni. Da un altro punto di vista ancora, la Terra d'Israele, in quanto centro spirituale, era un'immagine del Cielo, poiché, secondo la tradi­zione giudaica, «Tutto quel che fanno gli Israeliti sulla terra è compiuto secondo i tipi di ciò che avviene nel mondo celeste» [Ibidem, 1, p. 501].

Quanto è detto qui degli Israeliti può ugualmente valere per tutti i popoli che possiedono una tradizione veramente ortodossa; e, di fatto, il popolo d'Israele non è il solo ad aver assimilato il proprio paese al «Cuore del Mondo» e ad averlo considerato come un'immagine del Cielo, due idee che, del resto, sono in realtà una sola. L'uso dello stesso simbolismo si ritrova presso altri popoli i quali possedevano anch'essi una «Terra santa», cioè un paese ov'era stabilito un centro spirituale avente per loro una funzione paragonabile a quella del Tempio di Gerusalemme per gli Ebrei. A tale riguardo, la «Terra santa» equivale al­l'“Omphalos”, che era sempre l'immagine visibile del «Centro del Mondo» per il popolo della regione in cui era posto [Si veda il nostro articolo su “Les Pierres de foudre” (qui sotto, come cap. 25)].

Il simbolismo in questione s'incontra in particolare presso gli antichi Egizi; infatti secondo Plutarco, «gli Egizi danno al loro paese il nome “Chemia” [Kémi, in lingua egiziana, significa «terra nera», designazione di cui si ritrova l'equivalente anche presso altri popoli; da questa parola è venuta quella di “alchimia” (“al” non è che l'articolo in arabo), che designava originariamente la scienza ermetica, cioè la scienza sacerdotale dell'Egitto], e lo paragonano a un cuore» [Iside e Osiride, 33; traduzione francese di Mario Meunier, p. 116]. La ragione fornitane da quest'autore è abbastanza strana: «Questo paese è infatti caldo, umido, compreso nelle parti meridionali della terra abitata, estesa a Mezzogiorno, come nel corpo del­l'uomo il cuore si trova a sinistra», poiché «gli Egizi considera­no l'Oriente come il volto del mondo, il Nord come la sua destra e il Mezzogiorno la sinistra» [Ibidem, 32, p. 112. In India, è al contrario il Mezzogiorno a esser designato come il «lato destro» (dakshina); ma, malgrado le apparenze, in fondo è la stessa cosa, giacché bisogna intendere con ciò il lato che si ha alla propria destra quando ci si volge verso Oriente, ed è facile rappresentarsi il lato destro del mondo come quello che si estende alla destra di colui che lo contempla, e inversamente, come avviene per due persone poste l'una di fronte all’altra]. Si tratta solo di somiglianze piut­tosto superficiali, e la vera ragione dev'essere tutt'altra, giacché lo stesso paragone con il cuore è stato pure applicato a ogni terra alla quale veniva attribuito un carattere sacro e «centrale» in senso spirituale, qualunque fosse la sua posizione geografica. D'al­tronde, al dire di Plutarco stesso, il cuore, che rappresentava l'Egitto, rappresentava al tempo stesso il Cielo: «Gli Egizi» egli dice «raffigurano il cielo che non può invecchiare perché è eter­no, con un cuore posto su un braciere che ne alimenta l'ardore con la fiamma» [Iside e Osiride, 10, p. 49. Si osserverà che questo simbolo, con il significato che gli viene qui attribuito, sembra poter essere accostato a quello della fenice]. Così, mentre il cuore è esso stesso raffigurato da un vaso che non è altro se non quello designato nelle leggende medioevali come «Santo Graal», esso è a sua volta, e simulta­neamente, il geroglifico dell'Egitto e quello del Cielo.

La conclusione da trarre da queste considerazioni, è che vi sono altrettante «Terre sante» particolari quante forme tradizionali regolari, poiché esse rappresentano i centri spirituali cor­rispondenti rispettivamente a queste diverse forme; ma, se lo stesso simbolismo si applica uniformemente a tutte le «Terre sante», la ragione è che tali centri spirituali hanno tutti una analoga costituzione, spesso fin nei minimi particolari, poiché sono altrettante immagini di un medesimo centro unico e supre­mo, che solo è il vero «Centro del Mondo», ma di cui assumono gli attributi partecipando alla sua natura mediante una comu­nicazione diretta, nella quale risiede l'ortodossia tradizionale, e rappresentandolo effettivamente, in modo più o meno esteriore, in tempi e luoghi determinati. In altri termini, esiste una «Terra santa» per eccellenza, prototipo di tutte le altre, centro spirituale a cui tutti gli altri sono subordinati, sede della tradizione pri­mordiale da cui tutte le tradizioni particolari sono derivate per adattamento a queste o quelle condizioni definite proprie a un popolo o a un'epoca. Questa «Terra santa» per eccellenza, è il «paese supremo», secondo il senso del termine sanscrito Para­desha, di cui i Caldei hanno fatto Pardes e gli Occidentali Para­diso; è infatti il «Paradiso terrestre», punto di partenza di ogni tradizione, che ha al suo centro la fonte unica da cui partono i quattro fiumi che scorrono verso i quattro punti cardinali [Questa fonte è identica alla «fonte d'insegnamento» alla quale abbiamo avuto occasione di alludere proprio qui diverse volte], e che è anche la «dimora d'immortalità», com'è facile rendersi conto riportandosi ai primi capitoli della Genesi [Per questo la «fonte d'insegnamento» è nello stesso tempo la «fontana della giovinezza» (fons juventutis), poiché chi vi beve è liberato dalla condizione tem­porale; essa è d'altronde situata ai piedi dell’“Albero della Vita» (si veda il nostro studio su “Le Langage secret de Dante et des «Fidèles d'Amour»” in «Le Voile d'Isis», febbraio 1929) e le sue acque si identificano evidentemente con “l'elisir di lunga vita» degli ermetisti (l'idea di «longevità» ha qui lo stesso significato che nelle tradizioni orientali) o con la «bevanda d'immortalità», di cui si parla ovunque sotto nomi diversi].

Non possiamo pensare di tornare qui su tutte le questioni concernenti il Centro supremo, da noi già trattate altrove più o meno compiutamente: la sua conservazione in modo più o meno nascosto a seconda dei periodi, dall'inizio alla fine del ciclo, cioè dal «Paradiso terrestre» fino alla «Gerusalemme celeste» che ne rappresentano le due fasi estreme; i molteplici nomi sotto i quali viene designato, come quelli di Tula, di Luz, di Salem, di Agart­tha; i diversi simboli che lo raffigurano, come la montagna, la caverna, l'isola e molti altri ancora, in immediato rapporto, per lo più, con il simbolismo del «Polo» o dell’“Asse del Mondo». A queste raffigurazioni possiamo aggiungere anche quelle che ne fanno una città, una roccaforte, un tempio o un palazzo, a seconda dell'aspetto sotto il quale più specialmente lo si consi­dera; ed è l'occasione di richiamare, assieme al Tempio di Salo­mone che si ricollega più direttamente al nostro argomento, la triplice cinta di cui abbiamo di recente parlato come di una rappresentazione della gerarchia iniziatica di certi centri tradi­zionali [Si veda il nostro articolo su “La triple enceinte druidique” (qui sopra, come cap. 10); vi abbiamo segnalato precisamente il rapporto di questa figura, sotto le due forme, circolare e quadrata, con il simbolismo del «Paradiso terrestre» e della «Gerusalemme celeste»], e anche il misterioso labirinto, che, in una forma più complessa, si ricollega a una concezione similare, con la diffe­renza che vi è messa in evidenza soprattutto l'idea di un «progredire» verso il centro nascosto [Il labirinto cretese era il palazzo di Minosse, nome identico a quello di Manu, che designa quindi il legislatore primordiale. D'altra parte, si può capire, da quel che diciamo qui, la ragione per cui il percorso del labirinto tracciato sul pavimento di certe chiese, nel Medioevo, era considerato sostitutivo del pellegrinaggio in Terrasanta per coloro che non potevano compierlo; bisogna ricordarsi che il pel­legrinaggio è precisamente una delle figure dell'iniziazione, di modo che il «pelle­grinaggio in Terrasanta» è, in senso esoterico, lo stesso che la «ricerca della Parola perduta» o la «cerca del Santo Graal»].

Dobbiamo aggiungere ora che il simbolismo della «Terra santa» ha un duplice senso: che sia riferito al Centro supremo o a un centro subordinato, esso rappresenta non solo questo centro stesso, ma anche, per un'associazione d'altronde affatto naturale, la tradizione che ne emana o che vi è conservata, vale a dire, nel primo caso, la tradizione primordiale, e, nel secondo, una determinata forma tradizionale particolare [Analogicamente, dal punto di vista cosmogonico, il «Centro del Mondo» è il punto originale da cui viene proferito il Verbo creatore, ed è anche il Verbo stesso.]. Questo duplice significato si ritrova similmente, e in modo nettissimo, nel simbolismo del «Santo Graal», che è a un tempo un vaso (grasale) e un libro (gradale o graduale); quest'ultimo aspetto designa manifestamente la tradizione, mentre l'altro concerne più diret­tamente lo stato corrispondente all'effettivo possesso di tale tra­dizione, cioè lo «stato edenico» se si tratta della tradizione pri­mordiale; e colui che è pervenuto a questo stato è, per ciò stesso, reintegrato nel Pardes, in modo che si può dire che la sua dimora è ormai nel «Centro del Mondo” [È importante ricordarsi, a questo proposito, che in tutte le tradizioni i luoghi simboleggiano essenzialmente degli stati. D'altra parte faremo notare che c'è un'evidente parentela fra il simbolismo del vaso o della coppa e quello della fon­tana di cui s'è parlato sopra; si è anche visto che, presso gli Egizi, il vaso era il geroglifico del cuore, centro vitale dell'essere. Ricordiamo infine quel che abbiamo già detto in altre occasioni a proposito del vino come sostituto del soma vedico e come simbolo della dottrina nascosta; in tutto ciò, sotto una forma o un'altra, si tratta sempre della «bevanda d'immortalità» e della restaurazione dello «stato Primordiale»].

Non senza motivi accostiamo questi due simbolismi, giacché la loro stretta somiglianza mostra che, quando si parla della “cavalleria del Santo Graal» o dei «custodi della Terra santa», si deve intendere con queste due espressioni esattamente la stessa cosa; ci resta da spiegare, nella misura del possibile, in cosa consista propriamente la funzione di tali «custodi», funzione che fu in particolare quella dei Templari [Saint‑Yves d'Alveydre, per designare i «custodi» del Centro supremo, usa l'espressione «Templari dell'Agarttha»; le considerazioni che esponiamo qui fa ranno vedere l'esattezza di tale termine, di cui egli stesso non aveva forse colto pienamente il significato].

Per capirlo bene, bisogna distinguere fra i detentori della tradizione, la cui funzione è di conservarla e di trasmetterla, e coloro che ne ricevono soltanto, in maggior o minor grado, una comunicazione e, potremmo dire, una partecipazione.

I primi, depositari e dispensatori della dottrina, sono alla sor­gente, che è propriamente il centro stesso; di qui, la dottrina si comunica e si distribuisce gerarchicamente nei vari gradi inizia­tici, secondo le correnti rappresentate dai fiumi del Pardes, o, se si vuol riprendere la raffigurazione che abbiamo studiato qui recentemente, attraverso i canali che, andando dall'interno verso l'esterno, legano tra di loro le cinte successive corrispondenti a questi diversi gradi.

Tutti coloro che partecipano alla tradizione non sono quindi giunti allo stesso grado e non svolgono la stessa funzione; biso­gnerebbe anche fare una distinzione tra queste due cose, che, per quanto generalmente si corrispondano in qualche modo, non sono tuttavia strettamente solidali, giacché può capitare che un uomo sia intellettualmente qualificato per raggiungere i gradi più elevati, ma non per questo adatto a svolgere tutte le funzioni nell'organizzazione iniziatica. Qui sono soltanto le funzioni che dobbiamo prendere in considerazione; e, da questo punto di vista, diremo che i «custodi» si tengono al limite del centro spi­rituale, preso nel senso più vasto, o all'ultima cinta, quella da cui il centro è nello stesso tempo separato dal «mondo esterno e messo in rapporto con esso. Di conseguenza, questi «custodi hanno una duplice funzione: da un lato, sono propriamente i difensori della «Terra santa», nel senso che impediscono l'acces­so a coloro che non possiedono le qualificazioni richieste per penetrarvi, e costituiscono quella che abbiamo chiamato la sua “copertura esterna», ossia la nascondono agli occhi profani; dal­l'altro, assicurano comunque anche certe relazioni regolari con l'esterno, come spiegheremo in seguito.

È evidente che il ruolo di difensore è, per parlare il linguaggio della tradizione indù, una funzione da Kshatriya; e precisamente ogni iniziazione «cavalleresca» è essenzialmente atta alla natura propria degli uomini che appartengono alla casta guerriera, cioè agli Kshatriya. Da qui vengono i caratteri speciali di questa iniziazione, il particolare simbolismo di cui essa fa uso, e segna­tamente l'intervento di un elemento affettivo, designato in modo esplicito dal termine «Amore»; ci siamo già spiegati sufficiente­mente a tale proposito per non doverci soffermare ulteriormente [Si veda “Le Langage secret de Dante et des «Fidèles d'Amour»”, in «Le Voile d'Isis», febbraio 1929]. Ma, nel caso dei Templari c'è da fare un'ulteriore considerazio­ne: per quanto la loro iniziazione sia stata essenzialmente «ca­valleresca», come conveniva alla loro natura e alla loro funzione, essi avevano un duplice carattere, a un tempo militare e reli­gioso; e così doveva essere se erano, come abbiamo buone ragioni di pensare, fra i «custodi» del Centro supremo, ove l'autorità spirituale e il potere temporale sono riuniti nel loro principio comune, e che comunica il segno di tale riunione a tutto ciò che gli è direttamente collegato. Nel mondo occidentale, in cui lo spirituale assume la forma specificamente religiosa, i veri «custodi della Terra santa», finché ebbero un'esistenza in qual­che modo «ufficiale», dovevano essere cavalieri, ma dei cavalieri che fossero nello stesso tempo monaci; e in effetti proprio que­sto furono i Templari.

Questo ci induce direttamente a parlare della seconda fun­zione dei «custodi» del Centro supremo, funzione che consiste, dicevamo or ora, nell'assicurare certe relazioni esterne, e soprat­tutto, aggiungeremo, nel mantenere i legami fra la tradizione primordiale e le tradizioni secondarie e derivate. Perché possa essere così, bisogna che ci siano, per ogni forma tradizionale, una o più organizzazioni costituite in questa forma, secondo tutte le apparenze, ma composte di uomini coscienti di ciò che è al di là di ogni forma, vale a dire dell'unica dottrina fonte ed essenza di tutte le altre, che altro non è se non la tradizione primordiale.

Nel mondo della tradizione giudaico‑cristiana, era abbastanza naturale che una simile organizzazione dovesse prendere come simbolo il Tempio di Salomone; il quale, d'altra parte, per il fatto di avere da molto tempo cessato di esistere materialmente, poteva solo avere un significato ideale, come immagine del Centro supremo, al pari di ogni centro spirituale subordinato; e la stessa etimologia del nome di Gerusalemme indica abbastanza chiaramente che essa è solo un'immagine visibile della miste­riosa Salem di Melchisedec. Se tale fu il carattere dei Templari, per svolgere il compito loro assegnato che concerneva una deter­minata tradizione, vale a dire quella dell'Occidente, essi dovevano rimanere esteriormente legati alla forma di questa tradi­zione; ma, nello stesso tempo, la coscienza interiore della vera unità dottrinale doveva renderli capaci di comunicare con i rap­presentanti delle altre tradizioni [Ciò si riferisce a quel che è stato chiamato simbolicamente il «dono delle lingue»; su quest'argomento, rimanderemo al nostro articolo contenuto nel numero speciale dei «Voile d'Isis», dedicato ai Rosacroce]: è ciò che spiega le loro rela­zioni con certe organizzazioni orientali, e, naturalmente, con quelle che svolgevano altrove un ruolo simile al loro.

D'altra parte, si può comprendere come, in queste condizioni, la distruzione dell'ordine del Tempio abbia comportato per l'Occidente la rottura delle relazioni regolari con il «Centro del Mondo»; ed è proprio al secolo XIV che bisogna far risalire la deviazione che doveva inevitabilmente risultare da questa rot­tura, e che è andata gradualmente accentuandosi fino alla nostra epoca.
Non è comunque da dire che ogni legame sia stato spezzato di colpo; abbastanza a lungo, delle relazioni poterono essere man­tenute in una certa misura, ma solo di nascosto, per il tramite di organizzazioni come quella della «Fede Santa» o dei «Fedeli d'Amore», come la «Massenia del Santo Graal» e probabilmente molte altre ancora, tutte eredi dello spirito dell'ordine del Tem­pio, e per la maggior parte a esso collegate per filiazione più o meno diretta. Coloro che conservarono questo spirito vivente e ispirarono queste organizzazioni senza costituirsi da parte loro in alcun raggruppamento definito, furono quelli che vennero chiamati, con un nome essenzialmente simbolico, i Rosacroce; ma venne il giorno in cui gli stessi Rosacroce dovettero lasciare l'Occidente, le cui condizioni erano divenute tali che la loro azione non poteva più esservi esercitata, e si dice che si ritirassero allora in Asia, in qualche modo riassorbiti verso il Centro su­premo di cui erano quasi un'emanazione. Per il mondo occiden­tale, non c'è più una «Terra santa» da custodire, poiché il cammino che vi conduce è oggi ormai interamente smarrito; quanto tempo durerà ancora questa situazione, e bisogna poi sperare che la comunicazione possa presto o tardi essere ristabilita? È una domanda alla quale non spetta a noi dare una risposta; oltre al fatto che non vogliamo rischiare nessuna predizione, la solu­zione dipende soltanto dall'Occidente stesso, poiché solo ritor­nando a condizioni normali e ritrovando lo spirito della propria tradizione, se ne ha ancora in sé la possibilità, esso potrà vedere aprirsi di nuovo la via che conduce al «Centro del Mondo».

Guenon, Simboli della scienza sacra

La triplice cinta druidica




Paul Le Cour ha segnalato, in «Atlantis» (luglio‑agosto 1928), un curioso simbolo tracciato su una pietra druidica scoperta verso il 1800 a Suèvres (Loir‑et‑Cher), che era stata precedentemente studiata da E.C. Florance, presidente della Società di Storia naturale e di Antropologia del Loir‑et‑Cher. Questi pensa addi­rittura che la località ove fu trovata la pietra potrebbe essere stato il luogo della riunione annuale dei druidi, che secondo Cesare era situato ai confini del paese dei Carnuti [Cesare dice: “in finibus Carnutum”; l'interpretazione ci sembra prestarsi a qualche dubbio, poiché “fines” non significa sempre «confini», ma designa spesso il paese medesimo. D'altra parte, non sembra si sia trovato a Suèvres niente che richiami l'Omphalos, che nel “Mediolanon” o “Medionemeton” della Gallia, doveva, secondo l'uso dei popoli celtici, essere raffigurato da un menhir]. La sua atten­zione fu attirata dal fatto che si trova lo stesso segno su un sigillo d'un oculista gallo‑romano, rinvenuto verso il 1870 a Villefranche­-sur‑Cher (Loir‑et‑Cher); ed espresse il parere che esso potesse rappresentare una triplice cinta sacra. Questo simbolo è effetti­vamente costituito da tre quadrati concentrici, legati fra di loro da quattro linee ad angolo retto.

Nel momento stesso in cui usciva l'articolo di «Atlantis», veniva segnalata a Florance l'esistenza del medesimo simbolo in­ciso su una grossa pietra di basamento di un contrafforte della chiesa di Sainte‑Gemme (Loir‑et‑Cher), pietra che sembra d'al­tronde di provenienza anteriore alla costruzione della chiesa, e che potrebbe risalire anch'essa al druidismo. È sicuro del resto che, come molti altri simboli celtici, e in particolare quello della ruota, questa figura è rimasta in uso fino al Medioevo, giacché Charbonneau‑Lassay l'ha rilevata tra i «graffiti» del torrione di Chinon [“Le Coeur rayonnant du donjon de Chinon”], assieme a un'altra non meno antica, formata da otto raggi e circoscritta da un quadrato, che si trova sul «be­tilo» di Kermaria studiato da J. Loth [“L’“Omphalos» chez les Celtes”, nella «Revue des Études anciennes», luglio-­settembre 1915] e al quale abbiamo già avuto occasione di alludere altrove [«Le Roi du Monde», cap. xi. L’“Omphalos», symbole du Centre, in «Regnabit», giugno 1926]. Le Cour informa che il sim­bolo del triplice quadrato si trova anche a Roma, nel chiostro di San Paolo, del secolo XIII, e che, d'altra parte, non era cono­sciuto nell'antichità soltanto dai Celti, poiché egli stesso l'ha notato parecchie volte sull'Acropoli di Atene, sulle lastre del Partenone e su quelle dell'Eretteo.

L'interpretazione del simbolo in questione come figura di una triplice cinta ci pare assai giusta; e Le Cour stabilisce a questo proposito un collegamento con ciò che dice Platone, il quale, parlando della metropoli degli Atlantidi, descrive il palazzo di Poseidone come un edificio al centro di tre cinte concentriche collegate fra di loro da canali, il che costituisce effettivamente una figura analoga a quella in questione, però circolare anziché quadrata.

Ora, quale può essere il significato di queste tre cinte? Abbiamo subito pensato che dovesse trattarsi di tre gradi di iniziazione, sicché il loro insieme avrebbe rappresentato, in certo modo, la figura della gerarchia druidica; e il fatto che la medesima figura si trovi anche altrove indicherebbe che esistevano, in altre forme tradizionali, delle gerarchie costituite sullo stesso modello, cosa questa perfettamente normale. La divisione dell'iniziazione in tre gradi è d'altronde la più frequente e, potremmo dire, quella fondamentale; tutte le altre rappresentano in definitiva, rispetto a essa, soltanto delle suddivisioni o degli sviluppi più o meno complicati. Ci ha fornito quest'idea l'essere venuti una volta a conoscenza di documenti i quali, in certi sistemi massonici di alti gradi, descrivono questi gradi precisamente come altrettante cinte successive tracciate intorno a un punto centrale [Le Cour annota che il punto centrale è segnato sulla maggior parte delle fi­gure che egli ha visto sull'Acropoli di Atene]; sicura­mente, tali documenti sono incomparabilmente meno antichi dei monumenti di cui si parla qui, ma si può ugualmente trovarvi un'eco di tradizioni a essi molto anteriori, e in ogni caso ci fornivano nella circostanza un punto di partenza per interessanti accostamenti.

È opportuno notar bene che la spiegazione che ne proponiamo non è per nulla incompatibile con certe altre, come quella ac­colta da Le Cour, secondo la quale le tre cinte si riferirebbero ai tre cerchi dell'esistenza riconosciuti dalla tradizione celtica; questi tre cerchi, che si ritrovano sotto altra forma nel cristiane­simo, sono d'altronde la stessa cosa dei «tre mondi» della tradi­zione indù. In quest'ultima, d'altra parte, i cerchi celesti sono talvolta rappresentati come altrettante cinte concentriche circon­danti il Meru, cioè la Montagna sacra che simboleggia il «Polo» o l’“Asse del Mondo», ed è anche questa una notevolissima con­cordanza. Lungi dall'escludersi, le due spiegazioni si accordano perfettamente, e si potrebbe anche dire che in un certo senso coincidono, giacché, se si tratta d'iniziazione reale, i suoi gradi corrispondono ad altrettanti stati dell'essere, e sono questi stati che tutte le tradizioni descrivono come altrettanti mondi diversi, perché si deve tenere ben presente che la «localizzazione» ha soltanto carattere simbolico. Abbiamo già spiegato, a proposito di Dante, come i cieli siano propriamente delle «gerarchie spiri­tuali», cioè dei gradi d'iniziazione [«L'Esotérisme de Dante», cap. II], e va da sé che essi si riferi­scono al tempo stesso ai gradi dell'esistenza universale, poiché, come dicevamo allora [Ibidem, cap. vi], in virtù dell'analogia costitutiva del Ma­crocosmo e del Microcosmo, il processo iniziatico riproduce ri­gorosamente il processo cosmogonico. Aggiungeremo che, in li­nea di massima, è proprio di ogni interpretazione veramente ini­ziatica di non essere mai esclusiva, ma, al contrario, di abbrac­ciare sinteticamente tutte le altre interpretazioni possibili; è per questa ragione inoltre che il simbolismo, con i suoi significati molteplici e sovrapposti, è il mezzo di espressione normale di ogni vero insegnamento iniziatico.

Grazie a questa stessa spiegazione, il senso delle quattro linee disposte a forma di croce che collegano le tre cinte diventa immediatamente chiaro: sono dei canali, attraverso i quali l'inse­gnamento della dottrina tradizionale si comunica dall'alto in basso, a partire dal grado supremo che ne è il depositario, distri­buendosi gerarchicamente negli altri gradi. La parte centrale della figura corrisponde dunque alla «fonte d'insegnamento» di cui parlano Dante e i «Fedeli d'Amore» [Si veda il nostro articolo in «Le Voile d'Isis», febbraio 1929], e la disposizione cru­ciforme dei quattro canali che ne dipartono li identifica ai quat­tro fiumi del Pardes.

A tale proposito, conviene osservare che tra le due forme cir­colare e quadrata della figura delle tre cinte c'è un'importante sfumatura da notare: esse si riferiscono rispettivamente al sim­bolismo del Paradiso terrestre e a quello della Gerusalemme celeste, secondo quanto abbiamo spiegato in una nostra opera [«Le Roi du Monde», cap. xi; sui rapporti fra il Paradiso terrestre e la Gerusa­lemme celeste, si veda anche «L'Esotérisme de Dante», cap. viii]. Infatti, vi è sempre analogia e corrispondenza tra l'inizio e la fine di qualunque ciclo, ma, alla fine, il cerchio è sostituito dal quadrato, e ciò indica la realizzazione di quella che gli ermetisti designavano simbolicamente come «quadratura del cerchio» [Questa quadratura non può essere ottenuta nel «divenire» o nel movimento stesso del ciclo, perché esprime la fissazione che risulta dal «passaggio al limite»; e, essendo ogni movimento ciclico propriamente indefinito, il limite non può esser raggiunto percorrendo successivamente e analiticamente tutti i punti corrispon­denti a ogni momento dello sviluppo della manifestazione]: la sfera, che rappresenta lo sviluppo delle possibilità mediante espansione del punto primordiale e centrale, si trasforma in un cubo quando questo sviluppo è completo ed è raggiunto l'equi­librio finale per il ciclo considerato [Sarebbe facile far qui un accostamento con il simbolo massonico della «pietra cubica», che ugualmente si riferisce all'idea di compimento e di perfezione, cioè alla realizzazione della pienezza delle possibilità implicate in un certo stato]. Applicando specificamente queste considerazioni alla questione che ora ci occupa, diremo che la forma circolare deve rappresentare il punto di partenza di una tradizione, ed è proprio questo il caso dell'Atlantide [Bisogna d'altronde precisare che la tradizione atlantidea non è tuttavia la tra­dizione primordiale per il presente Manvantara, e che essa è solo secondaria in rapporto alla tradizione iperborea; solo relativamente si può prenderla come punto di partenza, per quanto concerne un determinato periodo il quale costituisce soltanto una delle suddivisioni del Manvantara], e la forma quadrata il suo termine, che corrisponde alla costituzione di una forma tradizionale derivata. Nel primo caso, il centro della figura sarebbe allora la fonte della dottrina, mentre, nel secondo, ne sarebbe più propriamente il serbatoio, avendo qui l'autorità spirituale soprattutto una funzione di conservazione; ma, naturalmente, il simbolismo della «fonte d'insegnamento» si applica a entrambi i casi [L'altra figura che abbiamo riprodotto sopra si presenta spesso anche sotto forma circolare: è allora una delle varietà più comuni della ruota, e questa ruota a otto raggi è per certi versi un equivalente del loto a otto petali, più proprio delle tradizioni orientali, così come la ruota a sei raggi equivale al giglio, che ha sei petali (si vedano i nostri articoli su “Le Chrisme et le Coeur dans les anciennes marques corporatives” e su “L'idée du Centre dans les traditions antiques”, in «Regnabit», novembre 1925 e maggio 1926 (quest'ultimo pubblicato sopra come cap. 8))]. Dal punto di vista del simbolismo numerico, bisogna ancora notare che l'insieme dei tre quadrati costituisce il duodenario. Disposti altrimenti, questi tre quadrati, ai quali s'aggiungono pure quattro linee in croce, costituiscono la figura nella quale gli antichi astrologi inscrivevano lo zodiaco [Le quattro linee in croce sono poste allora diagonalmente in rapporto ai due quadrati estremi, e lo spazio compreso fra di essi si trova diviso in dodici triangoli rettangoli uguali]; tale figura era considerata d'altronde quella della Gerusalemme celeste con le sue dodici porte, tre per ogni lato, e vi è in ciò un rapporto evidente con il significato che abbiamo appena indicato per la forma quadrata. Ci sarebbero senza dub­bio ancora molti altri accostamenti da esaminare, ma pensiamo che queste poche note, per quanto incomplete, contribuiranno già a portar qualche lume sulla misteriosa questione della tri­plice cinta druidica.

Guenon, Simboli della scienza sacra

I fiori simbolici




L'uso dei fiori nel simbolismo è, come si sa, molto diffuso e si ritrova nella maggior parte delle tradizioni; è anche molto complesso, ed è nostra intenzione indicare qui solo alcuni dei suoi significati più generali. È evidente infatti che, a seconda che sia preso come simbolo questo o quel fiore, il senso deve variare, almeno nelle sue modalità secondarie, e parimenti che, come avviene in genere nel simbolismo, ogni fiore può avere in se stesso una pluralità di significati, legati per altro tra di loro da certe corrispondenze.

Uno dei significati principali è quello che si riferisce al prin­cipio femminile o passivo della manifestazione, cioè a Prakriti, la sostanza universale; e, a tale riguardo, il fiore equivale a un certo numero di altri simboli, fra i quali uno dei più importanti è la coppa. Come quest'ultima, infatti, il fiore evoca con la sua stessa forma l'idea di un «ricettacolo» ciò che di fatto è Prakriti in rapporto alle influenze emanate da Purusha, e anche nel lin­guaggio corrente si parla del «calice» di un fiore. D'altra parte, lo sbocciare di questo fiore rappresenta al tempo stesso lo sviluppo della manifestazione, considerata come produzione di Prakriti; e questo duplice senso è particolarmente chiaro nel caso del loto, che è in Oriente il fiore simbolico per eccellenza, il cui carat­tere specifico è di sbocciare sulla superficie delle acque; que­st'ultima, come abbiamo spiegato altrove, rappresenta sempre l'ambito di un certo stato di manifestazione, o il piano di rifles­sione del «Raggio celeste» che esprime l'influenza esercitata da Purusha su quest'ambito per realizzare le possibilità che vi sono potenzialmente contenute, avvolte nell'indifferenziazione primor­diale di Prakriti [Si veda «Le Symbolisme de la Croix», cap. xxiv].

L'accostamento con la coppa, che abbiamo ora indicato, deve naturalmente far pensare al simbolismo del Graal nelle tradizioni occidentali; ed è appunto il caso di fare, a questo proposito, un'osservazione assai degna d'interesse. Si sa che, tra i vari altri oggetti che la leggenda associa al Graal, figura in particolare una lancia che, nell'adattamento cristiano, non è altro che la lancia del centurione Longino, dalla quale fu aperta nel fianco di Cristo la ferita donde sgorgarono il sangue e l'acqua raccolti da Giu­seppe d'Arimatea nella coppa della Cena; ma è altrettanto vero che questa lancia o qualche suo equivalente esisteva già, come simbolo in qualche modo complementare alla coppa, nelle tradizioni anteriori al cristianesimo [Cfr. «Le Roi du Monde”, cap. v. Si potrebbero riportare, tra i diversi casi in cui la lancia è usata come simbolo, alcune curiose somiglianze che giungono fino a certi particolari: così, presso i Greci, si riteneva che la lancia di Achille guarisse le ferite che causava; la leggenda medioevale attribuisce la stessa virtù alla lancia della Passione]. La lancia, quando è posta ver­ticalmente, è una delle figure dell’“Asse del Mondo», che s'iden­tifica con il «Raggio celeste» di cui parlavamo un momento fa; e si possono anche richiamare, a tale proposito, le frequenti assimi­lazioni del raggio solare ad armi come la lancia o la freccia, sulle quali non è il caso di insistere ulteriormente. Da un altro lato, in alcune rappresentazioni, gocce di sangue cadono dalla lancia stessa nella coppa; ora queste gocce di sangue non sono qui nient'altro, nel loro significato principiale, che l'immagine delle influenze emanate da Purusha, il che evoca d'altronde il simbo­lismo vedico del sacrificio di Purusha all'origine della manife­stazione [Si potrebbe anche, sotto certi aspetti, far qui un accostamento con il conosciutissimo simbolismo del pellicano]; e questo ci ricondurrà direttamente alla questione del simbolismo floreale, da cui con tali considerazioni ci siamo allon­tanati solo in apparenza.

Nel mito di Adone (il cui nome, del resto, significa «il Si­gnore»), quando l'eroe è colpito a morte dal grifo di un cin­ghiale, che svolge qui la stessa funzione della lancia, il suo sangue, spandendosi per terra, fa nascere un fiore; e sarebbe senza dubbio abbastanza facile trovare altri esempi analoghi. Ciò si ritrova pure nel simbolismo cristiano: è così che Charbonneau‑Lassay ha se­gnalato «un ferro da ostie del secolo XII, in cui si vede il sangue delle piaghe del Crocifisso cadere in goccioline che si trasformano in rose, e la vetrata del secolo XIII della cattedrale di Angers ove il sangue divino, che scorre in ruscelli, sboccia ancora sotto forma di rose» [«Regnabit», gennaio 1925. Segnaliamo anche, in riferimento a un simbolismo affine, la raffigurazione delle cinque piaghe di Cristo con cinque rose, una posta al centro della croce e le altre quattro tra i suoi bracci, insieme che costituisce anche uno dei principali simboli rosacrociani]. La rosa è in Occidente, con il giglio, uno dei più consueti equivalenti di ciò che è il loto in Oriente; qui sem­bra d'altronde che il simbolismo del fiore sia riferito unicamente alla produzione della manifestazione [Deve restare ben inteso, perché questa interpretazione non possa dar luogo ad alcuna obiezione, che vi è una relazione strettissima fra «Creazione» e «Reden­zione», che non sono altro che due aspetti dell'operazione del Verbo divino], e che Prakriti sia rappre­sentata piuttosto dallo stesso suolo vivificato dal sangue; ma vi sono anche dei casi in cui sembra che le cose stiano altrimenti. Nello stesso articolo che abbiamo appena citato, Charbonneau-­Lassay riproduce un disegno ricamato su una cartagloria dell'ab­bazia di Fontevrault, che risale alla prima metà del secolo XVI ed è conservata oggi nel museo di Napoli, in cui si vede la rosa posta ai piedi di una lancia eretta verticalmente, lungo la quale piovono gocce di sangue. La rosa vi appare associata alla lancia esattamente come lo è altrove la coppa, e sembra proprio rac­cogliere delle gocce di sangue piuttosto che provenire dalla tra­sformazione di una di esse; è evidente del resto che i due signi­ficati non si oppongono per nulla, ma piuttosto si completano giacché queste gocce, cadendo sulla rosa, la vivificano e la fanno sbocciare; e va da sé che questa funzione simbolica del sangue ha, in tutti i casi, la sua ragione nel rapporto diretto di quest'ultimo con il principio vitale, qui trasposto nell'ordine cosmi­co. La pioggia di sangue equivale anche alla «rugiada celeste» che, secondo la dottrina cabalistica, emana dall’“Albero della Vita», altra figura dell’“Asse del Mondo», e quindi l'influenza vivificante è collegata principalmente alle idee di rigenerazione e di resurrezione, manifestamente connesse all'idea cristiana del­la Redenzione; e questa stessa rugiada svolge pure un ruolo im­portante nel simbolismo alchimistico e rosacrociano [Cfr. «Le Roi du Monde», cap. in. La somiglianza che esiste fra il nome della rugiada (ros) e quello della rosa (rosa) non può del resto passare inosservata a coloro che sanno quanto sia frequente l'uso di un certo simbolismo fonetico]

Quando si considera che il fiore rappresenta lo sviluppo della manifestazione, vi è equivalenza fra esso e altri simboli, tra i quali bisogna annoverare specialmente quello della ruota, che s'incontra quasi dappertutto, con un numero di raggi variabile a seconda delle raffigurazioni, ma che ha sempre di per sé un valore simbolico particolare. I tipi più consueti sono le ruote a sei e a otto raggi; la «rotella» celtica, che si è perpetuata attraverso quasi tutto il Medioevo occidentale, si presenta sotto l'una o l'al­tra di queste forme; le medesime figure, e soprattutto la seconda, si ritrovano spessissimo nei paesi orientali, in particolare in Caldea e in Assiria, in India e nel Tibet. Ora la ruota è sempre, anzitutto, un simbolo del Mondo; nel linguaggio simbolico della tradizione indù, si parla costantemente della «ruota delle cose» o della «ruota della vita», il che corrisponde chiaramente a tale significato; e non meno frequenti nella tradizione estremo‑orien­tale sono le allusioni alla «ruota cosmica». Ciò è sufficiente a stabilire la stretta parentela di queste figure con i fiori simbolici, il cui sbocciare è d'altronde allo stesso modo un irradiamento intorno al centro, poiché anch'essi sono delle figure «centrate»; e si sa che, nella tradizione indù, il Mondo è talvolta rappresen­tato sotto forma di un loto al centro del quale sorge il Meru, la “montagna polare». Vi sono d'altronde delle corrispondenze ma­nifeste, che rinforzano ulteriormente tale equivalenza tra il numero dei petali di questi fiori e quello dei raggi della ruota; così, il giglio ha sei petali, e il loto, nelle rappresentazioni del tipo più comune, ne ha otto, in modo che essi corrispondono rispettivamente alle ruote a sei e a otto raggi di cui abbiamo appena parlato [Abbiamo notato, come esempio chiarissimo di una simile equivalenza nel Medioevo, la ruota a otto raggi e un fiore a otto petali raffigurati l'una di fronte all'altro su una stessa pietra scolpita, incastrata nella facciata dell'antica chiesa Saint‑Mexme di Chinon, risalente con ogni probabilità all'epoca carolingia. La ruota si trova d'altronde spessissimo raffigurata sulle chiese romaniche, e lo stesso rosone gotico, assimilato dal suo nome ai simboli floreali, sembra proprio esserne derivato, così che esso si ricollegherebbe, per una ininterrotta filiazione, all'antica «rotella» celtica]. In quanto alla rosa, essa viene raffigurata con un numero variabile di petali; ci limiteremo a far notare a que­sto proposito che in genere i numeri cinque e sei si riferiscono rispettivamente al «microcosmo» e al «macrocosmo»; inoltre, nel simbolismo alchimistico, la rosa a cinque petali, posta al centro della croce che rappresenta i quattro elementi, è anche, come abbiamo già segnalato in un altro studio, il simbolo della «quintessenza», la quale svolge d'altra parte, relativamente alla manifestazione corporea, un ruolo analogo a quello di Prakriti [“La Théorie hindoue des cinq éléments”]. Infine, menzioneremo ancora la parentela dei fiori a sei petali e della ruota a sei raggi con certi altri simboli non meno diffusi, come quello del «monogramma di Cristo», sui quali ci propo­niamo di tornare in altra occasione [Charbonneau‑Lassay ha segnalato l'associazione della rosa stessa con il mono­gramma di Cristo (“Regnabit», numero del marzo 1926) in una figura di questo genere che egli ha riprodotto da un mattone merovingio: la rosa centrale ha sei petali, orientati secondo i bracci del monogramma; inoltre, questo è chiuso in un cerchio, il che ne fa apparire nel modo più chiaro l'identità con la ruota a sei raggi]. Per questa volta, ci basterà aver mostrato le due analogie più importanti dei simboli floreali, con la coppa in quanto si riferiscono a Prakriti, e con la ruota in quanto si riferiscono alla manifestazione cosmica; il rapporto di questi due significati è d'altronde, in definitiva, un rapporto da principio a conseguenza, poiché Prakriti è la radice stessa di ogni manifestazione.

Guenon, Simboli della scienza sacra

Il Sacro Cuore e la leggenda del Sacro Graal



Nel suo articolo “Iconographie ancienne du Coeur de Jésus”, Charbonneau‑Lassay segnala molto giustamente, in collegamen­to con quella che si potrebbe chiamare la «preistoria del Cuore eucaristico di Gesù», la leggenda del Santo Graal, scritta nel se­colo XII, ma assai anteriore per le sue origini, poiché essa è in realtà un adattamento cristiano di antichissime tradizioni celti­che. L'idea di questo accostamento ci era già venuta in occasione dell'articolo precedente, estremamente interessante dal punto di vista in cui ci poniamo, intitolato “Le Coeur humain et la notion du Coeur de Dieu dans la religion de l'ancienne Égypte”, di cui richiameremo il brano seguente: «Nei geroglifici, scrit­tura sacra ove spesso l'immagine della cosa rappresenta la parola stessa che la designa, il cuore fu nondimeno raffigurato con un solo emblema: il vaso. Il cuore dell'uomo non è infatti il vaso in cui la sua vita si elabora continuamente con il suo sangue?». Appunto il vaso, preso come simbolo del cuore e che si so­stituisce a esso nell'ideografia egiziana, ci aveva fatto pensare immediatamente al Santo Graal, tanto più che in quest'ultimo, oltre al senso generale del simbolo (considerato d'altronde nello stesso tempo sotto i suoi due aspetti divino e umano), vediamo ancora una relazione speciale e assai più diretta con il Cuore medesimo di Cristo.

Effettivamente, il Santo Graal è la coppa che contiene il pre­zioso sangue di Cristo, e lo contiene addirittura due volte, poiché essa servì dapprima alla Cena, e in seguito Giuseppe d'Arimatea vi raccolse il sangue e l'acqua che sgorgavano dalla ferita aperta dalla lancia del centurione nel fianco del Redentore. Questa cop­pa si sostituisce dunque in qualche modo al Cuore di Cristo come ricettacolo del suo sangue, ne prende per così dire il posto e ne diviene come un equivalente simbolico; e non è ancor più notevole, in queste condizioni, che il vaso sia già stato antica­mente un emblema del cuore? D'altronde, la coppa, sotto una forma o sotto un'altra, svolge, al pari del cuore stesso, un ruolo assai importante in molte tradizioni antiche; e senza dubbio era così in particolare presso i Celti, giacché da essi è venuto ciò che costituì il fondo stesso o almeno la trama della leggenda del Santo Graal. È increscioso che non si possa sapere con molta pre­cisione qual era la forma di questa tradizione anteriormente al cristianesimo, come succede del resto per tutto ciò che concerne le dottrine celtiche, per le quali l'insegnamento orale fu sempre l'unico modo di trasmissione usato; ma vi è d'altra parte una sufficiente concordanza perché si possa almeno essere informati sul senso dei principali simboli che vi figuravano, e questo è in fondo quel che c'è di più essenziale.

Ma torniamo alla leggenda sotto la forma in cui ci è perve­nuta; quel che dice dell'origine stessa del Graal è assai degno di attenzione: questa coppa sarebbe stata intagliata dagli angeli in uno smeraldo staccatosi dalla fronte di Lucifero al momento del­la sua caduta. Tale smeraldo richiama in modo sorprendente l’“urna”, la perla frontale che, nell'iconografia indù, occupa spesso il posto del terzo occhio di Shiva, rappresentando quel che si può chiamare il «senso dell'eternità». Questo accostamento ci sembra più adatto di qualsiasi altro a illuminare perfettamente il simbo­lismo del Graal; e si può persino cogliervi una relazione di più con il cuore, che è, per la tradizione indù come per molte altre, ma forse più chiaramente ancora, il centro dell'essere integrale, e al quale, di conseguenza, tale «senso dell'eternità» dev'essere direttamente ricollegato.

È detto poi che il Graal fu affidato ad Adamo nel Paradiso terrestre, ma che, alla sua caduta, Adamo lo perse a sua volta, dal momento che non poté portarlo con sé quando fu cacciato dall'Eden; e anche questo diventa assai chiaro con il senso che abbiamo appena indicato. L'uomo, allontanato dal suo centro originale dalla propria colpa, si trovava ormai rinchiuso nella sfera temporale; non poteva più raggiungere il punto unico da cui tutte le cose sono contemplate sotto l'aspetto dell'eternità. Il Paradiso terrestre, infatti, era veramente il «Centro del Mondo», dovunque assimilato simbolicamente al Cuore divino; e non si può dire che Adamo, finché fu nell'Eden, viveva realmente nel Cuore di Dio?

Quanto segue è più enigmatico: Seth ottenne di rientrare nel Paradiso terrestre e poté così recuperare il prezioso vaso; ora, Seth è una delle figure del Redentore, tanto più che il suo stesso nome esprime le idee di fondamento, di stabilità, e annuncia in qualche modo la restaurazione dell'ordine primordiale distrutto dalla caduta dell'uomo. C'era dunque fin da allora almeno una restaurazione parziale, nel senso che Seth e quelli che dopo di lui possedettero il Graal potevano per ciò stesso istituire, da qualche parte sulla terra, un centro spirituale che era come un'immagine del Paradiso perduto. La leggenda, d'altronde, non dice dove né da chi il Graal fu conservato fino all'epoca di Cristo, né come fu assicurata la sua trasmissione, ma l'origine celtica che le si riconosce deve probabilmente lasciar intendere che i druidi vi ebbero parte e devono essere annoverati fra i conser­vatori regolari della tradizione primordiale. In ogni caso, non sembra che si possa mettere in dubbio l'esistenza di un tale centro spirituale, o anche di parecchi, simultaneamente o successivamente, qualunque cosa si debba pensare della loro localizzazione; quel ch'è da notare è che si applicò sempre e dappertutto a questi centri, tra le altre designazioni, quella di «Cuore del Mondo», e che, in tutte le tradizioni, le descrizioni che a essi si riferiscono sono basate su un identico simbolismo, che è possibile seguire fin nei particolari più precisi. Questo non mostra forse a sufficienza che il Graal, o ciò che viene così rappresentato, aveva già, ante­riormente al cristianesimo, anzi in ogni tempo, un legame fra i più stretti con il Cuore divino e con l'“Emmanuel”, vogliamo dire con la manifestazione, virtuale o reale a seconda delle epoche, ma sempre presente, del Verbo eterno nel seno dell'umanità ter­restre?

Dopo la morte di Cristo, il Santo Graal fu, secondo la leggenda, trasportato in Gran Bretagna da Giuseppe d'Arimatea e da Nicodemo; comincia allora a svolgersi la storia dei Cavalieri della Tavola rotonda e delle loro imprese, che non intendiamo seguire qui. La Tavola rotonda era destinata a ricevere il Graal quando uno dei cavalieri fosse riuscito a conquistarlo e l'avesse portato dalla Gran Bretagna in Armorica; e questa tavola è anch'essa un simbolo verosimilmente antichissimo, uno di quelli che fu­rono associati all'idea dei centri spirituali a cui abbiamo appena alluso. La forma circolare della tavola è d'altronde legata al «ciclo zodiacale» (ancora un simbolo che meriterebbe di essere studiato più specificamente) per la presenza attorno a essa di dodici personaggi principali, particolarità che si ritrova nella costituzione di tutti i centri in questione. Stando così le cose, non si può forse vedere nel numero dei dodici Apostoli una traccia, fra moltissime altre, della perfetta conformità del cri­stianesimo alla tradizione primordiale, alla quale il nome di “precristianesimo» converrebbe tanto esattamente? E, d'altra par­te, a proposito della Tavola rotonda, abbiamo osservato una stra­na concordanza nelle rivelazioni simboliche fatte a Marie de Vallées [Si veda «Regnabit», novembre 1924], ove è menzionata «una tavola rotonda di diaspro, che rappresenta il Cuore di Nostro Signore», nello stesso tempo in cui si tratta di «un giardino che è il Santo Sacramento dell'al­tare», e che, con le sue «quattro fontane d'acqua viva», si iden­tifica misteriosamente al Paradiso terrestre; non è ancora una conferma abbastanza sorprendente e inattesa dei rapporti che segnalavamo sopra?

Naturalmente, queste note troppo rapide non potrebbero avere la pretesa di costituire uno studio completo su una questione così poco conosciuta; dobbiamo limitarci per il momento a fornire delle semplici indicazioni, e ci rendiamo ben conto che vi si trovano delle considerazioni suscettibili, sulle prime, di sor­prendere un poco coloro che non sono familiarizzati con le tra­dizioni antiche e con i loro consueti modi d'espressione simbo­lica; ma ci riserviamo di svilupparli e giustificarli più ampia­mente in seguito, in articoli in cui pensiamo di poter affrontare anche molti altri punti non meno degni d'interesse.

Intanto menzioneremo ancora, per quel che concerne la leg­genda del Santo Graal, una strana complicazione di cui non abbiamo tenuto conto fin qui: per una di quelle assimilazioni verbali che svolgono spesso nel simbolismo un ruolo non trascu­rabile, e che d'altronde hanno forse ragioni più profonde di quanto ci s'immaginerebbe a prima vista, il Graal è a un tempo un vaso (grasale) e un libro (gradale o graduale). In alcune ver­sioni, i due sensi si trovano anche strettamente collegati, poiché il libro diviene allora un'iscrizione tracciata da Cristo o da un angelo sulla coppa stessa. Non intendiamo attualmente trarre da ciò alcuna conclusione, benché vi siano dei collegamenti facili a stabilirsi con il «Libro della Vita» e con certi elementi del simbolismo apocalittico.

Aggiungiamo che la leggenda associa al Graal altri oggetti, e in particolare una lancia, che, nell'adattamento cristiano, non è altro che la lancia del centurione Longino; ma quel che è assai curioso è la preesistenza di questa lancia o di qualche suo equi­valente come simbolo in qualche modo complementare alla coppa nelle tradizioni antiche. D'altra parte, presso i Greci, si riteneva che la lancia d'Achille guarisse le ferite che causava; la leggenda medioevale attribuisce precisamente la stessa virtù alla lancia della Passione. E questo ci richiama un'altra somiglianza dello stesso genere: nel mito di Adone (il cui nome, del resto, signifi­ca «il Signore»), allorché l'eroe viene colpito mortalmente dal grifo di un cinghiale (che sostituisce qui la lancia), il suo sangue, spandendosi a terra, fa nascere un fiore; ora, Charbon­neau in «Regnabit» [Si veda “Regnabit», gennaio 1925] ha segnalato «un ferro da ostie, del secolo XII, dove si vede il sangue delle piaghe del Crocifisso cadere in goccioline che si trasformano in rose, e la vetrata del secolo XIII della cattedrale d'Angers in cui il sangue divino, che cola in ru­scelli, sboccia pure sotto forma di rose». Avremo fra poco da riparlare del simbolismo floreale, considerato sotto un profilo un poco differente; ma, quale che sia la molteplicità di sensi che presentano quasi tutti i simboli, tutto ciò si completa e si armonizza perfettamente, e questa stessa molteplicità, lungi dall'essere un inconveniente o un difetto, è, al contrario, per chi sa comprenderla, uno dei vantaggi principali di un linguaggio assai meno strettamente limitato del linguaggio ordinario.

Per concludere queste note, indicheremo alcuni simboli che, in varie tradizioni, si sostituiscono talora a quello della coppa, e gli sono identici nel fondo; ciò non significa uscire dal nostro terna, dal momento che il Graal stesso, come si può facilmente rendersi conto da tutto quanto abbiamo detto, non ha all'origine altro significato se non quello che ha il vaso sacro dovunque lo si incontri, e che ha in particolare, in Oriente, la coppa sacrificale contenente il Soma vedico (o lo Haoma mazdeo), straordinaria «prefigurazione» eucaristica sulla quale torneremo forse in altra occasione. Ciò che il Soma raffigura propriamente, è la «bevanda d'immortalità» (l'Amrita degli Indù, l'Ambrosia dei Greci, due parole etimologicamente simili), che conferisce o restituisce, a coloro che la accolgono con le disposizioni richieste, quel «senso dell'eternità» di cui s'è trattato precedentemente.

Uno dei simboli di cui vogliamo parlare è il triangolo con la punta diretta verso il basso; è una specie di rappresentazione schematica della coppa sacrificale, e lo si trova a questo titolo in certi yantra o simboli geometrici dell'India. D'altra parte, è assai degno di nota dal nostro punto di vista il fatto che la medesima figura sia anche un simbolo del cuore, di cui riproduce d'altronde la forma semplificandola; il «triangolo del cuore» è un'espres­sione corrente nelle tradizioni orientali. Questo ci porta a un'os­servazione che ha anch'essa il suo interesse: e cioè che la raffigu­razione del cuore inscritto in un triangolo così disposto non ha in sé nulla che non sia assolutamente legittimo, si tratti del cuore umano o del Cuore divino, e che essa è pure abbastanza significa­tiva quando la si riferisce agli emblemi usati da certo ermetismo cristiano del Medioevo, le cui intenzioni furono sempre piena­mente ortodosse. Se si è voluto talvolta, nei tempi moderni, at­tribuire a una tale rappresentazione un senso blasfemo, ciò si deve al fatto che è stato alterato, coscientemente o no, il signifi­cato originario dei simboli, fino a capovolgere il loro valore nor­male; è un fenomeno questo di cui si potrebbero citare numerosi esempi, e che trova d'altronde la sua spiegazione nel fatto che certi simboli sono effettivamente suscettibili di una doppia inter­pretazione e hanno quasi due facce opposte. Il serpente, per esem­pio, e anche il leone, non significano ugualmente, secondo i casi, il Cristo e Satana? Non possiamo pensare di esporre qui a questo proposito una teoria generale che ci condurrebbe assai lontano; ma si comprenderà che vi è in ciò qualcosa che rende molto deli­cato l'uso dei simboli, e anche che questo punto richiede un'attenzione tutta speciale allorché si tratta di scoprire il senso reale di certi emblemi e di tradurli correttamente.

Un altro simbolo che equivale frequentemente a quello della coppa, è un simbolo floreale: il fiore, infatti, non evoca forse con la sua forma l'idea di un «ricettacolo», e non si parla del «calice» di un fiore? In Oriente, il fiore simbolico per eccellenza è il loto; in Occidente, è più spesso la rosa a svolgere l'identico ruolo. Non vogliamo dire, beninteso, che tale sia l'unico signifi­cato di quest'ultima, come pure del loto, dato che, al contrario, ne indicavamo noi stessi un altro in precedenza; ma lo vedremmo volentieri nel disegno ricamato su quella cartagloria dell'abbazia di Fontevrault dove la rosa è collocata ai piedi d'una lancia lungo la quale piovono gocce di sangue. Questa rosa vi appare asso­ciata alla lancia esattamente come lo è altrove la coppa, e sem­bra proprio raccogliere le gocce di sangue piuttosto che prove­nire dalla trasformazione di una di esse; ma, del resto, i due significati si completano molto più di quanto non si oppongano, dal momento che le gocce, cadendo sulla rosa, la vivificano e la fanno sbocciare. È la «rugiada celeste», secondo la figura così spesso impiegata in relazione all'idea della Redenzione, o alle idee connesse di rigenerazione e di resurrezione; ma pure questo richiederebbe lunghe spiegazioni, quand'anche ci limitassimo a mettere in rilievo la concordanza delle diverse tradizioni riguardo a quest'altro simbolo.

D'altra parte, poiché è stato fatto riferimento alla Rosa‑Croce a proposito del sigillo di Lutero, diremo che quest'emblema er­metico fu dapprima specificamente cristiano, quali che siano le false interpretazioni più o meno «naturalistiche» che ne sono state date a partire dal secolo XVIII; e non è forse degno di nota che la rosa vi occupi, al centro della croce, proprio il posto del Sacro Cuore? Al di fuori delle rappresentazioni in cui le cinque piaghe del Crocifisso sono raffigurate da altrettante rose, la rosa centrale, quand'è sola, può benissimo identificarsi con il Cuore stesso, con il vaso che contiene il sangue, che è il centro della vita e anche il centro dell'essere intero.

C'è ancora almeno un altro equivalente simbolico della coppa: è la falce lunare; ma questa, per essere convenientemente spie­gata, esigerebbe degli sviluppi del tutto estranei al tema del pre­sente studio; la menzioneremo soltanto per non trascurare total­mente nessun lato della questione.
Da tutti i collegamenti che abbiamo appena segnalato, trarremo già una conseguenza che speriamo di poter rendere ancora più manifesta in seguito: quando si trovano dappertutto concordanze tali, non vi è forse più che un semplice indizio dell'esistenza di una tradizione primordiale? E come spiegare che, la maggior parte delle volte, coloro stessi che si credono obbligati ad am­mettere in teoria questa tradizione primordiale non vi pensano più in seguito e ragionano di fatto esattamente come se essa non fosse mai esistita, o almeno come se nulla se ne fosse conservato nel corso dei secoli? Se si vuol riflettere bene a quel che c'è di anormale in un simile atteggiamento, si sarà forse meno disposti a meravigliarsi di certe considerazioni che, in verità, sembrano strane solo in virtù delle abitudini mentali proprie alla nostra epoca. D'altronde, basta cercare un po’, a condizione di non avere in ciò alcun partito preso, per scoprire da ogni parte le tracce di questa unità dottrinale essenziale, la cui coscienza ha potuto talora oscurarsi nell'umanità, ma che non è mai scomparsa inte­ramente; e, mano a mano che si procede in questa ricerca, i punti di confronto si moltiplicano quasi da soli e nuove prove appaiono a ogni istante; certo, il “Quaerite et invenietis” del Van­gelo non è parola vana.

Guenon, Simboli della scienza sacra

L'idea del centro nelle tradizioni antiche





Abbiamo già avuto occasione di alludere al «Centro del Mon­do» e ai vari simboli che lo rappresentano; è opportuno ora ri­tornare su quest'idea del Centro, che ha una grandissima impor­tanza in tutte le tradizioni antiche, indicando alcuni dei princi­pali significati che a essa sono connessi. Per i moderni, infatti, quest'idea non evoca più immediatamente tutto ciò che vi scor­gevano gli antichi; anche qui come in tutto quel che ha attinenza col simbolismo, molte cose sono state dimenticate, e certi modi di pensare sembrano divenuti totalmente estranei alla maggior parte dei nostri contemporanei; conviene dunque insistervi pro­prio perché l'incomprensione è generale e completa.

Il Centro è, prima di tutto, l'origine, il punto di partenza di tutte le cose; è il punto principiale, senza forma e senza dimen­sioni, dunque invisibile, e, di conseguenza, la sola immagine che si possa dare dell'Unità primordiale. Da esso sono prodotte, per irradiazione, tutte le cose, come l'Unità produce tutti i nu­meri, senza che la sua essenza ne riesca modificata o intaccata in alcuna maniera. Vediamo qui un parallelismo completo fra due modi di espressione: il simbolismo geometrico e il simbolismo numerico, tanto che possono essere usati indifferentemente e si può passare dall'uno all'altro nella maniera più naturale. Non bisogna dimenticare, del resto, che, nell'un caso come nell'altro, si tratta sempre di simbolismo: l'unità aritmetica non è l'Unità metafisica, ne è solo una figura, ma una figura nella quale non c'è niente di arbitrario, poiché esiste tra l'una e l'altra una relazione analogica reale, ed è questa relazione che permette di trasporre l'idea dell'Unità oltre l'ambito della quantità, nell'ordine tra­scendentale. Lo stesso vale per l'idea del Centro in quanto è suscettibile di un'analoga trasposizione, per mezzo della quale si spoglia del suo carattere spaziale, non più evocato se non a titolo di simbolo: il punto centrale è il Principio, l'Essere puro; e lo spazio che esso empie del suo irradiamento e non esiste che per questo stesso irradiamento (il “Fiat Lux” della Genesi), senza il quale lo spazio non sarebbe che «privazione» e nulla, è il Mondo nel senso più ampio della parola, l'insieme di tutti gli esseri e di tutti gli stati d'esistenza che costituiscono la manife­stazione universale.

La rappresentazione più semplice dell'idea da noi appena for­mulata, è il punto al centro del cerchio: il punto è l'em­blema del Principio, il cerchio quello del Mondo. È impossibile far risalire l'uso di questa raffigurazione a una qualsiasi origine nel tempo, poiché la si incontra frequentemente su oggetti prei­storici; indubbiamente bisogna scorgervi uno dei segni che si ri­collegano direttamente alla tradizione primordiale. Talvolta, il punto è circondato da più cerchi concentrici, che sembrano rap­presentare i diversi stati o gradi dell'esistenza manifestata, dispo­nentisi gerarchicamente secondo la loro maggiore o minore di­stanza dal Principio primordiale. Il punto al centro del cerchio è stato anche assunto, e probabilmente fin da un'epoca assai remota, come una figura del sole, perché esso nell'ordine fisico è realmen­te il Centro o il «Cuore del Mondo»; e tale figura è rimasta sino ai nostri giorni come segno astrologico e astronomico usuale del sole. Forse per questa ragione la maggior parte degli archeologi, dovunque incontrano questo simbolo, pretendono di assegnargli un significato esclusivamente «solare», mentre esso ha in realtà un senso ben altrimenti vasto e profondo; dimenticano, o igno­rano, che il sole, dal punto di vista di tutte le tradizioni antiche, è in sé soltanto un simbolo, quello del vero «Centro del Mondo» che è il Principio divino.

Il rapporto che esiste tra il centro e la circonferenza, o tra ciò che rispettivamente rappresentano, è già indicato abbastanza chiaramente dal fatto che la circonferenza non potrebbe esistere senza il suo centro, mentre questo è del tutto indipendente da quella. Tale rapporto può essere raffigurato in modo ancor più evidente ed esplicito con raggi provenienti dal centro e terminanti sulla circonferenza; questi raggi possono evidentemente esser tracciati in numero variabile, dal momento che sono realmente in quan­tità indefinita come i punti della circonferenza; ma, di fatto, si sono sempre scelti, per le raffigurazioni di questo genere, dei numeri che hanno di per se stessi un particolare valore simbolico. Qui, la forma più semplice è quella che presenta solo quattro raggi che dividono la circonferenza in parti eguali, cioè due diametri retti formanti una croce all'interno della circonferenza. Questa nuova figura ha lo stesso significato generale della prima, ma vi si aggiungono alcuni significati secondari che vengono a completarla: la circonferenza, se la si immagina per­corsa in un certo senso, è l'immagine di un ciclo di manifesta­zione, del genere di quei cicli cosmici di cui la dottrina indù in particolare fornisce una teoria estremamente sviluppata. Le divisioni determinate sulla circonferenza dalle estremità dei brac­ci della croce corrispondono allora ai diversi periodi o fasi in cui si divide il ciclo; e una tale divisione può esser considerata, per così dire, con metri diversi, a seconda che si tratti di cicli più o meno estesi: si avranno così, per esempio, e per limitarci al solo ordine dell'esistenza terrestre, i quattro momenti princi­pali della giornata, le quattro fasi della lunazione, le quattro stagioni dell'anno, e anche, secondo la concezione che troviamo tanto nelle tradizioni dell'India e dell'America centrale che in quelle dell'antichità greco‑latina, le quattro ere dell'umanità. Qui ci limiteremo a indicare sommariamente queste considera­zioni, per fornire un'idea complessiva di quel che esprime il simbolo in questione; esse sono d'altronde legate più diretta­mente a quanto avremo da dire in seguito.

Tra le figure che comportano un maggior numero di raggi, dobbiamo menzionare in special modo le ruote o «rotelle», che ne hanno per solito sei o otto. La «rotella» celtica, che si è perpetuata attraverso quasi tutto il Medioevo, si pre­senta sotto l'una o l'altra di queste forme; queste stesse figure, e soprattutto la seconda, s'incontrano assai spesso nei paesi orien­tali, particolarmente in Caldea e in Assiria, in India (ove la ruota è chiamata “chakra”) e nel Tibet. D'altra parte, c'è una stretta parentela fra la ruota a sei raggi e il monogramma di Cristo, che ne differisce in definitiva solo per il fatto che la circonferenza alla quale appartengono le estremità dei raggi di solito non è tracciata; ora, la ruota, invece di essere semplicemente un segno “solare», come s'insegna comunemente ai nostri tempi, è prima di tutto un simbolo del Mondo, cosa che si potrà capire senza difficoltà. Nel linguaggio simbolico dell'India, si parla costan­temente della «ruota delle cose» o della «ruota della vita», il che corrisponde evidentemente a questo significato; si parla anche della «ruota della Legge», espressione che il buddismo ha desunto, come molte altre, dalle dottrine anteriori, e che, almeno in origine, si riferisce soprattutto alle teorie cicliche. Bisogna anche aggiungere che anche lo Zodiaco viene rappre­sentato sotto forma di una ruota, naturalmente a dodici raggi, e che d'altronde il suo nome in sanscrito significa letteralmente «ruota dei segni»; si potrebbe anche tradurlo con «ruota dei numeri», secondo il senso principale della parola “rashi” che serve a designare i segni dello Zodiaco [Osserviamo anche che la «ruota della Fortuna», nel simbolismo dell'antichità occidentale, ha strettissimi rapporti con la «ruota della Legge», e anche, per quanto ciò non appaia forse altrettanto chiaramente a prima vista, con la ruota zodiacale].

Vi è inoltre una certa connessione tra la ruota e vari simboli floreali; avremmo anche potuto, per lo meno in certi casi, parlare di una vera e propria equivalenza [Fra gli altri indizi di questa equivalenza, durante il Medioevo, abbiamo visto la ruota a otto raggi e un fiore a otto petali raffigurati l'una di fronte all'altro su una medesima pietra scolpita, incastrata nella facciata dell'antica chiesa Saint-Mexme di Chinon, che risale molto probabilmente all'epoca carolingia]. Se si considerano certi fiori simbolici quali il loto, il giglio o la rosa [Il giglio ha sei petali; il loto, nelle rappresentazioni del tipo più corrente, ne ha otto; le due forme corrispondono dunque alle ruote a sei e otto raggi. In quanto alla rosa, essa è raffigurata con un numero variabile di petali che può modificarne il significato o almeno dargli delle sfumature diverse. Sul simbolismo della rosa, si veda l'interessantissimo articolo di Charbonneau‑Lassay («Regnabit», marzo 1926)], il loro sbocciare rap­presenta fra l'altro (poiché si tratta di simboli dai molteplici significati), e grazie a una somiglianza assai comprensibile, lo sviluppo della manifestazione; lo sbocciare è d'altronde un irra­diamento intorno al Centro, dato che anche qui si tratta di figure «centrate», il che giustifica la loro assimilazione alla ruota [Nella figura del monogramma di Cristo con la rosa, di epoca merovingia, riprodotta da Charbonneau‑Lassay («Regnabit», marzo 1926, p. 298), la rosa centrale ha sei petali orientati secondo i bracci del monogramma; inoltre, quest'ultimo è incluso in un cerchio, il che ne fa apparire nel modo più chiaro l'identità con la ruota a sei raggi]. Nel­la tradizione indù, il Mondo è talora rappresentato sotto forma di un loto al centro del quale si eleva il Meru, la Montagna sacra che simboleggia il Polo.

Ma torniamo ai significati del Centro. Finora ci siamo soffer­mati soltanto sul primo e più importante, quello che ne fa l'immagine del Principio; ne troveremo un altro nel fatto che il Centro è propriamente il “mezzo», il punto equidistante da lutti i punti della circonferenza, e che divide il diametro in due parti uguali. Fin qui, il Centro era considerato in qualche modo prima della circonferenza, la quale ha realtà solo in quanto irradiamento di esso; ora invece lo consideriamo in rapporto alla circonferenza realizzata, vale a dire che si tratterà dell'azione del Principio in seno alla creazione. Il mezzo fra gli estremi rappresentati da punti opposti della circonferenza è il luogo ove le tendenze contrarie, che fanno capo a tali estremi, per così dire si neutralizzano e si trovano in perfetto equilibrio. Alcune scuole di esoterismo musulmano, che attribuiscono alla croce un valore simbolico della più grande importanza, chiamano «stazione divina» (el‑maqamul‑ilahi) il centro di questa croce, che esse desi­gnano come il luogo in cui si unificano tutti i contrari, in cui si risolvono tutte le opposizioni. L'idea che si esprime qui in modo particolare è quindi l'idea di equilibrio, che fa tutt'uno con quella di armonia; non sono due idee differenti, bensì due aspetti della stessa idea. Vi è inoltre un terzo aspetto, legato in special modo al punto di vista morale (benché suscettibile di accogliere anche altri significati), ed è l'idea di giustizia; si può, così, ricollegare tutto quanto abbiamo detto alla concezione pla­tonica secondo la quale la virtù consiste in un giusto mezzo fra due estremi. Da un punto di vista molto più universale, le tradizioni estremo‑orientali parlano continuamente dell'«Invariabile Mezzo», che è il punto in cui si manifesta l'«Attività del Cielo»; e, secondo la dottrina indù, al centro di ogni essere, come di ogni stato dell'esistenza cosmica, risiede un riflesso del Principio supremo.

L'equilibrio stesso, d'altronde, non è a dire il vero che il riflesso, nell'ordine della manifestazione, dell'immutabilità asso­luta del Principio; per esaminare le cose sotto questo nuovo pro­filo, bisogna considerare la circonferenza in movimento attorno al suo centro, che, solo, non partecipa a questo movimento. Il nome stesso della ruota (rota) evoca immediatamente l'idea di rotazione; e questa rotazione è la figura del continuo mutamento al quale sono sottoposte tutte le cose manifestate, movimento nel quale c'è soltanto un punto che rimane fisso e immutabile, e questo punto è il Centro. Il che ci riporta alle concezioni cicliche cui abbiamo accennato in precedenza: il percorso di un ciclo qualsiasi, o la rotazione della sua circonferenza, è la successione, sia secondo la modalità temporale, sia secondo qualunque altra modalità; la fissità del Centro è l'immagine dell'eternità, in cui tutte le cose sono presenti in perfetta simultaneità. La circon­ferenza può girare solo intorno a un centro fisso; allo stesso modo, il mutamento, che non basta a se stesso, presuppone necessariamen­te un principio al di fuori del mutamento: è il «motore immobile» di Aristotele, che è ancora una volta rappresentato dal Centro. Il Principio immutabile è dunque nello stesso tempo, e proprio per il fatto che tutto ciò che esiste, tutto ciò che cambia o si muove non ha realtà che per esso e dipende totalmente da esso, è, dicevamo, ciò che fornisce al movimento il suo impulso inizia­le, e anche ciò che in seguito lo governa e lo dirige, che gli dà la sua legge, essendo in qualche modo la conservazione dell'or­dine del Mondo nient'altro che un prolungamento dell'atto creatore. Esso è, secondo un'espressione indù, l'«ordinatore in­terno» (antaryami), poiché dirige tutte le cose dall'interno, ri­siedendo nel punto più interno di tutti, che è il Centro.

Invece della rotazione di una circonferenza intorno al suo centro, si può anche considerare quella di una sfera intorno a un asse fisso; il significato simbolico è esattamente lo stesso. Per que­sto le rappresentazioni dell’“Asse del Mondo» sono così numerose e importanti in tutte le tradizioni antiche; e il loro significato ge­nerale è in fondo lo stesso di quello delle figure del «Centro del Mondo», salvo forse per il fatto che esse evocano più direttamente il ruolo del Principio immutabile nei riguardi della manifesta­zione universale, che non gli altri aspetti sotto i quali può essere ugualmente considerato il Centro. Quando la sfera, terrestre o celeste, ruota intorno al suo asse, ci sono su di essa due punti che rimangono fissi: sono i poli, che sono le estremità dell'asse o i suoi punti d'incontro con la superficie della sfera; per questo l'idea del Polo è anch'essa un equivalente dell'idea del Centro. Il simbolismo che si riferisce al Polo, e che assume talora forme assai complesse, si ritrova anch'esso in tutte le tradizioni, e vi occupa un posto considerevole; che la maggior parte degli studiosi mo­derni non se ne siano accorti, è la riprova che la vera compren­sione dei simboli sfugge loro completamente.

Una delle figure più sorprendenti, nelle quali si riassumono le idee che abbiamo appena esposto, è quella dello swastika, che è essenzialmente il «segno del Polo»; pensiamo per altro che finora nell'Europa moderna non se ne sia mai fatto conoscere il vero significato. Si è cercato vanamente di spiegare questo sim­bolo con le teorie più fantasiose, giungendo addirittura a vedervi lo schema di uno strumento primitivo destinato alla produzione del fuoco; in verità, se esso ha talvolta un certo rapporto con il fuoco, è per tutt'altra ragione. Il più delle volte, se n'è fatto un segno «solare», cosa che esso è potuto divenire soltanto acciden­talmente e in modo abbastanza indiretto; potremmo ripetere qui quel che dicevamo prima a proposito della ruota e del punto al centro del cerchio. I più vicini alla verità sono stati quelli che hanno ritenuto lo swastika un simbolo del movimento, ma anche questa interpretazione è insufficiente, poiché non si tratta di un movimento qualunque, ma di un movimento di rotazione che si compie intorno a un centro o a un asse immutabile; ed è precisamente il punto fisso l'elemento essenziale a cui si riferisce diret­tamente il simbolo in questione. Gli altri significati sono tutti derivati da quello: il Centro imprime il movimento a ogni cosa e, siccome il movimento rappresenta la vita, lo swastika diventa per ciò un simbolo della vita, o, più esattamente, della funzione vivificante del Principio in rapporto all'ordine cosmico.

Se confrontiamo lo swastika con la figura della croce inscritta nella circonferenza, possiamo renderci conto che sono, in fondo, due simboli equivalenti; ma la rotazione, invece di esser rappresentata dal tracciato della circonferenza, è indicata nello swastika soltanto dalle linee aggiunte alle estremità dei bracci della croce e formanti con essi degli angoli retti; queste linee sono delle tangenti alla circonferenza, che segnano la direzione del movimento nei punti corrispondenti. Poiché la circonferenza rappresenta il Mondo, il fatto che essa sia per così dire sottintesa indica assai chiaramente che lo swastika non è una figura del Mondo, bensì dell'azione del Principio in rapporto al Mondo [La stessa osservazione varrebbe anche per il monogramma di Cristo paragonato alla ruota].

Se si riferisce lo swastika alla rotazione di una sfera quale la sfera celeste intorno al suo asse, occorre supporla tracciata nel piano equatoriale, e allora il punto centrale sarà la proiezione dell'asse su questo piano, che gli è perpendicolare. In quanto al senso della rotazione indicata dalla figura, la sua importanza è soltanto secondaria; di fatto, si incontrano entrambe le forme da noi sopra riprodotte [La parola swastika è, in sanscrito, la sola che serva a designare in tutti i casi il simbolo in questione; il termine “sauwastika”, che taluni hanno applicato a una delle due forme per distinguerla dall'altra (che allora sarebbe l'unico vero swastika), è in realtà soltanto un aggettivo derivato da swastika, e indica ciò che si riferisce a questo simbolo o ai suoi significati], e questo senza che sia necessario vedervi sempre un'intenzione di stabilire fra di esse una qualche oppo­sizione [La stessa osservazione si potrebbe fare per altri simboli, e in particolare per il monogramma di Cristo costantiniano, nel quale la “P” è talvolta rovesciata; talvolta si è pensato che bisognasse allora considerarla un segno deII'Anticristo; questa intenzione può effettivamente esser esistita in certi casi, ma ve ne sono altri in cui è manifestamente impossibile ammetterla (nelle catacombe, per esempio). Allo stesso modo, il «quatre de chiffre» corporativo, che del resto è soltanto una modificazione di questa medesima “P” del monogramma di Cristo, è indifferentemente volto nell'un senso o nell'altro, senza che si possa nemmeno attribuire questo fatto a una rivalità fra corporazioni o al loro desiderio di distinguersi, poiché si trovano le due forme nei segni appartenenti a una stessa corporazione]. Sappiamo bene che, in certi paesi e in certe epoche, si sono potuti produrre degli scismi i cui seguaci hanno volonta­riamente dato alla figura un'orientazione contraria a quella in uso nell'ambiente da cui si separavano, per affermare il loro anta­gonismo con una manifestazione esteriore; ma questo non intacca minimamente il significato essenziale del simbolo, che rimane lo stesso in tutti i casi.

Lo swastika è lungi dall'essere un simbolo esclusivamente orientale come si crede talora; in realtà, è uno di quelli più gene­ralmente diffusi, e lo si incontra quasi dappertutto, dall'Estremo Oriente all'Estremo Occidente, poiché esiste persino tra certi popoli indigeni dell'America del Nord. Al giorno d'oggi, è con­servato soprattutto nell'India e nell'Asia centrale e orientale, e probabilmente solo in quelle regioni se ne conosce ancora il vero significato; tuttavia anche in Europa non è interamente scom­parso [Non alludiamo qui all'uso del tutto artificiale dello swastika, in particolare da parte di taluni gruppi politici tedeschi, che ne hanno fatto con totale arbitrio un segno di antisemitismo, con il pretesto che tale emblema sarebbe proprio della presunta «razza ariana»; questa è pura fantasia]. In Lituania e in Curlandia, i contadini tracciano ancora questo segno nelle loro case; molto probabilmente non ne cono­scono più il senso e vi scorgono solo una specie di talismano pro­tettore; ma la cosa forse più curiosa è che essi gli danno il suo nome sanscrito di swastika [Il lituano è d'altronde, fra tutte le lingue indoeuropee, quella che ha una maggiore somiglianza col sanscrito]. Nell'antichità, troviamo questo segno in particolare tra i Celti e nella Grecia pre‑ellenica [Esistono diverse varianti dello swastika, per esempio una forma a bracci curvi (simile a due S incrociate), che abbiamo già visto in particolare su una moneta gallica. D’altra parte, certe figure che hanno conservato un carattere puramente decorativo, come quella cui si dà il nome di «greca», sono all'origine derivate dallo swastika]; e, sempre in Occidente, come ha detto Charbonneau‑Lassay [“Regnabit», marzo 1926, pp. 302‑303], esso fu anti­camente uno degli emblemi di Cristo, e restò in uso come tale fin verso la fine del Medioevo. Come il punto al centro del cerchio e come la ruota, questo segno risale incontestabilmente alle ere preistoriche; e da parte nostra non esitiamo a scorgervi un vestigio della tradizione primordiale.

Ma non abbiamo ancora esaurito la serie dei significati del Centro: se esso è anzitutto un punto di partenza, è anche un punto d'arrivo; tutto è derivato da esso, e tutto deve alla fine ritornarvi. Poiché tutte le cose esistono grazie al Principio e non potrebbero sussistere senza di esso, dev'esserci tra questo e quelle un legame permanente, raffigurato dai raggi che uniscono il cen­tro con tutti i punti della circonferenza; ma tali raggi possono essere percorsi nei due sensi: dal centro alla circonferenza, e dalla circonferenza, di ritorno, verso il centro. Si direbbero due fasi complementari, la prima delle quali è rappresentata da un mo­vimento centrifugo e la seconda da un movimento centripeto; queste due fasi possono esser paragonate a quelle della respira­zione, secondo un simbolismo al quale si riferiscono spesso le dottrine indù; e, d'altra parte, vi si ritrova anche un'analogia non meno notevole con la funzione fisiologica del cuore. Infatti, il sangue parte dal cuore, si diffonde per tutto l'organismo vivifi­candolo, poi ritorna al cuore; la funzione di quest'ultimo come centro organico è dunque veramente completa e corrisponde esattamente all'idea che dobbiamo farci, in modo generale, del Centro nella pienezza del suo significato.

Tutti gli esseri, che dipendono dal loro Principio in tutto quel che sono, devono, consciamente o inconsciamente, aspirare a ritornare verso di esso; questa tendenza al ritorno verso il Cen­tro possiede anche, in tutte le tradizioni, la sua rappresentazione simbolica. Vogliamo parlare dell'orientazione rituale, che è pro­priamente la direzione verso un centro spirituale, immagine ter­restre e sensibile del vero «Centro del Mondo»; l'orientazione delle chiese cristiane non ne è in fondo che un caso particolare e si riferisce essenzialmente alla stessa idea, comune a tutte le religioni. Nell'Islam, quest'orientazione (qibla) è quasi la ma­terializzazione, se così possiamo dire, dell'intenzione (niyya) in forza della quale tutte le potenze dell'essere devono esser dirette verso il Principio divino [La parola «intenzione» dev'essere presa qui nel suo senso strettamente etimo­logico (da “in‑tendere”, tendere verso)]; e si potrebbero facilmente trovare mol­ti altri esempi. Ci sarebbe molto da dire su tale questione; avremo senza dubbio altre occasioni di tornarvi sopra nel seguito di questi studi; ci accontentiamo quindi, per il momento, di accennare brevemente all'ultimo aspetto del simbolismo del Centro.

In sintesi, il Centro è al tempo stesso il principio e la fine di tutte le cose; è, secondo un simbolismo conosciutissimo, “l'alpha e l'omega”. Meglio ancora, è il principio, il mezzo e la fine; e questi tre aspetti sono rappresentati dai tre elementi del mono­sillabo “Aum”, al quale Charbonneau‑Lassay aveva alluso in quanto emblema di Cristo e la cui associazione allo swastika, tra i segni del monastero dei Carmelitani di Loudun, ci sembra particolar­mente significativa. Infatti, questo simbolo, molto più completo dell'alpha e dell'omega, e suscettibile di assumere significati che potrebbero dar luogo a sviluppi pressoché indefiniti, è, per una delle concordanze più straordinarie che si possano incontrare, comune all'antica tradizione indù e all'esoterismo cristiano del Medioevo; e, in entrambi i casi, è ugualmente e per eccellenza un simbolo del Verbo, che è realmente il vero «Centro del Mondo».

Guenon, Simboli della scienza sacra